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dimanche, 31 mai 2009

Passaggi al Bosco - E. Jünger nell'era dei Titani

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L. Bonesio, C. Resta,

PASSAGGI AL BOSCO.
Ernst Jünger nell’era dei Titani

ed. Mimesis, 2000

 

Ernst Jünger- Il tesserino militare da volontario della Ia Guerra Mondiale

 

Ex: http://www.maschiselvatici.it/

Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne sull’orlo dell’infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d’avanguardia, sull’estremo limite del nulla: sull’orlo di quell’abisso combatto la mia battaglia.

Ernst Jünger

«Jünger è stato se stesso e costituisce categoria umana a sé, come per tutti gli uomini sarebbe doveroso»[i]. Queste parole pronunciate da Quirino Principe alla scomparsa dell’autore tedesco, avvenuta il 17 febbraio del 1998 alla soglia dei 103 anni, mentre infuriavano i goffi tentativi di inserire il suo pensiero, le sue opere e scelte di vita in questo o quell’orientamento filosofico o politico, rappresentano, forse, l’unica descrizione possibile di una figura gigantesca come quella di Jünger. Scrittore, filosofo, poeta, guerriero, ma anche entomologo: il suo orgoglio più grande era quello di aver dato il proprio nome ad una famiglia di insetti. Uomo di pensiero aristocratico e d’azione, Ernst Jünger è oggi - dopo decenni di colpevole silenzio e di censure dovute alla mediocrità disinformata di alcuni e alla malafede di altri - una delle figure intellettuali europee più discusse e controverse. Mentre le sue opere vengono finalmente pubblicate da grandi case editrici, nel panorama degli studi critici italiani spicca, per completezza e profondità di analisi, il bellissimo libro di Luisa Bonesio e Caterina Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, ed. Mimesis. Si tratta di un volume che ripercorre rigorosamente l’intera opera del pensatore tedesco, dalla sua formazione sui campi di battaglia della prima Guerra Mondiale alle speculazioni dell’ultimo Jünger ritirato a Wilflingen, il villaggio della Svevia superiore, ignorato persino da molte carte geografiche e circondato da un meraviglioso paesaggio di boschi e prati, in cui lo scrittore tedesco trascorse l’ultima parte della sua vita avventurosa. Una vita lunga, piena, attiva e contemplativa assieme, che ha registrato la presenza di Jünger in eventi storici decisivi. Parafrasando il titolo di un saggio di Moreno Marchi dedicato ad alcuni scrittori francesi, anche di Jünger si può senz’altro affermare che ha vissuto con il sangue e con l’inchiostro. Lasciandoci in eredità se stesso, la sua esemplare statura, le sue qualità di uomo libero, prima e oltre la sua ricchissima produzione letteraria. Costringendoci inoltre - magnifico dono - a fare i conti in qualche modo con la sua persona, con il suo pensiero. Non è possibile prescindere da Ernst Jünger, infatti, se si desidera affrontare responsabilmente questioni cruciali del nostro tempo, come la tecnica, il nichilismo, la libertà, l’identità, l’organizzazione politica degli spazi planetari.
Egli ha attraversato tutto il Novecento divenendone uno dei suoi più lucidi testimoni. E’ riuscito a cogliere l’essenza profonda dei processi che segnano la modernità; e ciò non in virtù di uno sguardo intellettualistico (o cartesiano), bensì grazie alla sua straordinaria e misteriosa sensibilità stereoscopica che gli ha consentito di cogliere «le cose nella loro corporeità più segreta e più immobile»
[ii]. Non a caso, il nazionalbolscevico Ernst Niekisch coniò per Jünger la bellissima definizione di sismografo per sottolinearne le capacità di comprensione finanche dei più piccoli e “sotterranei” segnali del tempo. Capacità non disgiunte da un’indiscutibile e profetica veggenza, quasi come se Jünger disponesse di particolari ed invisibili antenne, non troppo dissimili da quelle dei suoi amatissimi insetti.
Benché l’eccezionale ricchezza dell’opera e della vita di Ernst Jünger renda praticamente infiniti gli argomenti da esaminare e gli spunti di riflessione da approfondire, questa raccolta di saggi di Luisa Bonesio e Caterina Resta rappresenta, sicuramente, la più riuscita esplorazione della totalità del pensiero jüngeriano, nei suoi nuclei teorici fondamentali, che sia mai stata pubblicata in Italia. Un libro indispensabile, dunque, per chi già conosce ed apprezza lo scrittore tedesco; ed un libro che, pur essendo molto più di una semplice “introduzione” all’opera di Jünger, per l’obiettività inconsueta ed immune dal vergognoso “brigantaggio politico” che molto spesso ha contraddistinto l’approccio al pensiero jüngeriano, è utilissimo anche per chi poco conosce di questo autore di riflessioni attualissime. Egli appartiene a quella schiera di uomini che si plasmarono nelle trincee della prima Guerra Mondiale e la cui vita fu segnata in modo indelebile da quei tragici avvenimenti[iii]. Ferito quattordici volte, si vide attribuire la croce Pour le mérite, il più importante riconoscimento dell’esercito tedesco. E fu proprio la guerra, l’esperienza fondamentale del giovane Jünger e il fattore stimolante delle sue prime speculazioni. Jünger riconobbe subito il travestimento moderno del fenomeno bellico nella guerra di materiali (Materialschlacht). «Il genio della guerra si è congiunto con il genio del progresso»[iv]: così la battaglia tradizionale evolve in una specie di combattimento in cui uomini e macchine sembrano affratellati. E’ la fine dei valori eroici tradizionali. L’assalto dei giovani volontari tedeschi, molti dei quali Wandervögel, presso Langemarck il 10 novembre 1914, è spesso ricordato da Jünger come un evento emblematico: l’entusiasmo e l’idealismo romantico delle migliori leve di una generazione si scontrarono con il fuoco delle artiglierie nemiche; e non ci fu nulla da fare. Eppure il capitano Jünger non reagisce alla guerra moderna cantando le virtù di quella antica, bensì scorge la grandezza dell’uomo, del guerriero che diventa tecnico, anche nelle tempeste d’acciaio. E, soprattutto, si rende presto conto della grande svolta che l’Occidente sta vivendo.
Lo sviluppo tecnologico, che ha modificato i sistemi di combattimento, sconvolge la vita anche in tempo di pace. La mobilitazione totale (nel suo duplice aspetto, tecnico e spirituale) si impone nel mondo del lavoro che assume dunque un carattere totale. Con incredibile chiarezza Jünger intravede, tra le due guerre mondiali, l’avvento della figura dell’Operaio o Lavoratore (Der Arbeiter), il «milite del lavoro»
[v] che mobilita il mondo con la tecnica. Non si tratta di una grandezza economica, come vorrebbero liberalismo e marxismo, bensì di un tipo d’uomo che si riconnette ai requisiti dell’epoca attuale. Una figura metafisica che sconvolge l’in-forme mondo del dominio (apparente) borghese. Quest’ultimo, assieme alle categorie concettuali del razionalismo cartesiano, è il bersaglio polemico di tutta l’opera dell’autore tedesco. Posto che anche il “borghese”, per Jünger, non è il rappresentante di una classe sociale ma il tipo d’uomo che nega ogni valore metafisico ed il modello di vita che, fondandosi sul bisogno infantile di sicurezza, rimuove le forze elementari della natura. Secondo Jünger, la figura dell’Operaio è destinata a sostituire l’individuo borghese, sorto dall’Illuminismo e slegato da ogni appartenenza, il cui tempo è tramontato. Il primo conflitto mondiale segna proprio la fine del “tempo dell’io individuale” (Ichzeit) e l’inizio “del tempo del noi collettivo” (Wirzeit). Lo spazio del lavoro non conosce più confini e l’azione dell’homo technicus è la sua spinta unificatrice. Come osserva Resta, ben prima dell’invenzione di internet lo scrittore europeo comprese perfettamente il modo reticolare con cui la tecnologia impone il suo dominio.
Tuttavia, se negli anni Trenta Jünger ha ancora fiducia nelle capacità del Lavoratore di dominare le macchine nell’attesa che la tecnica si spiritualizzi, giungendo al suo “punto di perfezione” e facendo dunque emergere il fondo immobile ed elementare del vorticoso processo di unificazione tecnica del pianeta, il catastrofico secondo conflitto mondiale, agli occhi dello scrittore tedesco, rende evidente l’inadeguatezza dell’Operaio. Il quale lungi dal controllare i suoi strumenti sembra essere diretto da loro, in un processo che tende alla costruzione di una terra senza confini e senza dèi, in cui trionfa un orribile e volgare “paesaggio da officina”. Con il passare del tempo, insomma, Jünger sembra diventare più pessimista circa le capacità dell’Operaio di costruire un ordine armonico dopo e oltre la distruzione. Perciò scorge da un lato la necessità di una unificazione politica del mondo nella quale l’organizzazione (il meccanismo tecnologico) non schiacci l’organismo (la sostanza vitale, le diverse culture ed identità). Il fondamento di questo Stato mondiale (Weltstaat) - che riscopre il modello politico imperiale, l’unico capace di garantire unità nella varietà
[vi], nell’era della crisi degli Stati nazionali - deve essere una Nuova Teologia in grado di portare l’uomo a riscoprire la relazione col divino, relazione indispensabile per governare l’accelerazione del nostro tempo ed evitare gli esiti più devastanti e nichilistici del titanismo tecnologico. Dall’altro lato, però, Jünger ritiene che questa rinnovata alleanza con gli dèi debba realizzarsi prima di tutto nel cuore del singolo. Considerato che il Lavoratore, figura titanica, non si rivela all’altezza di questo compito, lo scrittore tedesco individua allora nuove figure (il Ribelle, l’Anarca) capaci di operare quei passaggi oltre il muro del tempo che restituiscono libertà ed autenticità al singolo che sappia avvicinarsi al fondo immobile, originario e atemporale della realtà.
Di fronte al nichilismo della modernità, che Jünger giudica come un processo di riduzione (Reduktion) e svanimento (Schwund) di ogni sostanza, che agisce attraverso il tecnicismo e sistemi d’ordine di grandi dimensioni, l’autore tedesco guadagna ora una prospettiva nuova che gli consente di mutare l’atteggiamento nei confronti della tecnica. Quest’ultima, lungi dall’indebolire il “borghese”, appare ora agli occhi di Jünger come lo strumento di diffusione all’intero globo del suo potere dissacrato e dissacrante. La forma del Lavoro, di cui Jünger aveva subito il fascino, manifesta in maniera sempre più evidente il suo volto terrificante, distruttivo ed omologante. E’ la crescita del deserto di cui parla Nietzsche: l’omogeneizzazione dei paesaggi naturali e culturali procede di pari passo con l’inaridimento spirituale. Nel mezzo di questo gorgo nichilistico, secondo Jünger, sarebbe illusorio cercare la salvezza difendendo romanticamente istituzioni destinate ad essere travolte. La “cultura museale” e il percorso verso il nulla sono anzi, per lo scrittore tedesco, le due facce della stessa falsa medaglia. Nel panorama uniforme ed indifferenziato della modernità desertificante - di cui un altro simbolo è il Titanic, la nave lussuosa e tecnologica che corre velocissima verso l’impatto con l’iceberg in un’irreale atmosfera di festa – le piccole élites o i singoli non disposti a barattare la propria libertà ed identità per un po’ di comfort, possono resistere all’inglobamento nel Leviatano (il nichilismo, lo Stato moderno ridotto ad oggetto nichilistico), solo recuperando la dimensione della selvatichezza, della Wildnis. Natura incontaminata (Wildnis) e bosco (Wald) sono allora simboli di quella terra selvaggia non corrotta dall’organizzazione - intesa come l’ordine tecnico e scientifico che restringe, fino ad annientarla, la libertà dell’uomo; l’ordine del nulla, insomma - che cresce ovunque, nel petto del singolo e nel deserto, come un’oasi. La stupenda immagine del ricorso alla Selva rappresenta proprio il distacco dagli impersonali automatismi dei ritmi meccanici. E’ l’incontro con se stessi nella riscoperta delle forze elementari della natura, sacrificate dalla modernità occidentale sull’altare di una ragione eletta a divinità. Ma non si tratta di una passeggiata, né di una facile ritirata. Il bosco è infatti la grande dimora della morte. E il Ribelle dei boschi (Waldgänger), aprendosi alle forze elementari e trascendenti della natura, sa che il rischio, il pericolo, l’aspetto avventuroso dell’esistenza, il dolore, la violenza, la stessa morte (tutto ciò contro cui il “borghese” si illude di potersi “assicurare”), sono manifestazioni della natura, costituiscono il fondo primordiale (Urgrund) della vita. I tentativi volti alla negazione di queste forze non sono solo vani ma anche pericolosi: come insegna la psicologia del profondo, i contenuti rimossi della psiche rischiano di possedere completamente l’individuo, o la collettività, che quei contenuti ha negato.
I passaggi al bosco, dunque, sono praticabili, come spiega perfettamente Bonesio, laddove l’uomo riesce ancora a sentire la sacralità della natura, nella sua totalità, pensando ad essa al di fuori degli schemi riduttivi della scienza moderna che la banalizza ad oggetto di analisi e manipolazione. Ma l’approccio alla natura non può nemmeno essere di tipo romantico, giacché questo definisce la bellezza della natura solo in funzione dei canoni estetici dell’uomo, rimanendo così in una prospettiva antropocentrica. Bisogna imparare di nuovo a guardare la natura rispettandone i simboli meravigliosi. Ed anche in questo il Maestro Jünger ha molto da insegnarci.

Paolo Marcon


[i] Q. Principe, Ultimo Titano del ‘900 o primo del Duemila, in “Lo Stato”, 1998, n. 9, p. 63.

[ii] E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, in id., Foglie e pietre, trad. it., Milano, 1997, p. 109.

[iii] «La guerra è il padre di tutte le cose, anche il nostro […] Essa ci ha martellato e temprato perché diventassimo ciò che siamo. Per tutto il tempo che la ruota della vita girerà in noi, la guerra sarà il suo asse» (E. Jünger, Der Kampf als inneres Erlebnis, cit. in C. Risé, Misteri, guerra e trasformazione. Le battaglie del Sé, Milano, 1997, p. 26).

[iv] E. Jünger, La mobilitazione totale, in id., Foglie e pietre, op. cit., p. 114.

[v] L’espressione è di Delio Cantimori. Cfr. D. Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in id., Tre saggi su Jünger, Moeller van den Brück, Schmitt, Roma, 1985, pp. 17-43.

[vi] «Due principi supremi dovranno essere sanciti nella costituzione, qualunque struttura essa abbia: i principi dell’unità e della varietà. Il nuovo impero deve essere unico nelle sue articolazioni, ma nel rispetto delle loro specificità» (E. Jünger, La pace, trad. it., Parma, 1993, p. 52).


 

Ecco una bibliografia con le principali opere di Jünger in ordine cronologico!

  *1920.Nelle tempeste d'acciaio, Guanda.Diario tenuto da Ernst durante la prima guerra mondiale.Opera fondamentale che lo rese famoso come scrittore di guerra.Vi descrive, in modo realistico, la "guerra di materiali" (Materialschlacht), una nuova specie di combattimento dovuto all’impiego della tecnica nelle operazioni militari, in cui l’uomo diventa meno importante della forza delle macchine.

*1924.Boschetto 125, Guanda.Ancora sulla prima guerra mondiale.Racconta la vita di trincea.

*1929.Il cuore avventuroso, Guanda.Diario visionario che propone una serie di immagini talvolta sconvolgenti, che attaccano la società del dopoguerra.

*1932.L'Operaio, Guanda. E' l'opera più "pallosa" di Jünger, ma importante anche per rendersi conto dell'evoluzione del suo pensiero.Qui prima espone la sua fondamentale Teoria della Forma, o Figura (Gestalt), e poi individua la figura dell'Operaio (Der Arbeiter), come figura del nostro tempo.E' colui che mobilita il mondo con la Tecnica. Sostanziale giudizio positivo della tecnica come strumento di accelerazione e superamento del nichilismo.

*1934.Foglie e pietre, Adelphi.Raccolta di saggi tra cui l’importantissimo "La Mobilitazione Totale".Questa è un processo legato all’avvento della figura dell’Operaio e all’evoluzione delle tecniche di guerra (nelle battaglie di materiali tutti sono mobilitati).Ma è uno stato di cose che si impone, in tempo di pace, nel mondo del lavoro.

*1936.Ludi africani, Guanda.Racconto della sua esperienza di legionario.Con questo libro Jünger sembra denunciare il carattere illusorio della fuga romantica dalla società borghese.

*1939.Sulle scogliere di marmo, Guanda. Bellissimo!!! Romanzo utopico che presenta una critica neanche troppo velata al Nazismo.Da leggere assolutamente. Curiosità: qui il Forestaro è una figura negativa...bisognerebbe studiarla questa cosa...

*1941-1942.La pace, Guanda.Guarda oltre la guerra mondiale e pensa agli assetti futuri.Si dice che questo libro sia stato letto da Rommel mentre preparava il colpo di stato fallito contro Hitler.

*1941-1945.Irradiazioni, Guanda. Diario della seconda guerra mondiale.

*1950.Oltre la linea, Adelphi.Saggio sul nichilismo in cui introduce il tema della Wildnis.

*1951.Trattato del Ribelle, Adelphi.In questo testo Jünger descrive la figura del Waldgänger (colui che passa il bosco). Vedi recensione negli "Abbiamo letto".

*1953.Il nodo di Gordio, Il Mulino.Riflessioni su occidente e oriente, scritto con Schmitt.

*1954.Il libro dell'orologio a polvere, Adelphi. Riflessioni sul tempo: era un grande appassionato di clessidre.

*1959.Al muro del tempo, Adelphi. Ancora sul tempo in una prospettiva critica rispetto alle concezioni lineari.

*1960.Lo Stato mondiale, Guanda. Importante per capire la dimensione imperiale della globalizzazione.

*1977.Eumeswil, Guanda. Romanzo utopico in cui individua la figura dell' Anarca, un tipo d'uomo che "può trasformarsi in Ribelle, ma può anche vivere tranquillamente al riparo di un'oscura funzione".

 

samedi, 30 mai 2009

L'histoire vraie de Lawrence d'Arabie

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L'histoire vraie de Lawrence d'Arabie 

Patrick Grainville
23/04/2009 |
http://www.lefigaro.fr/

T. E. Lawrence - On a retrouvé la version intégrale des «Sept Piliers de la sagesse», la fameuse saga autobiographique de l'agent britannique.

Quand éclate la Grande Guerre, Hussein, le chérif de La Mecque, et ses fils en profitent pour se révolter contre l'occupation turque, vieille de cinq cents ans ! Les Turcs étant alliés aux Allemands, les Arabes sont solidaires des ­forces françaises et britanniques. Lawrence est un familier du Moyen-Orient où il a mené des missions archéologiques. Il parle l'arabe et se fait recruter comme officier de renseignement. Il est bientôt chargé de rencontrer le chérif Fayçal, fils d'Hussein, retranché au cœur des mon­tagnes dans l'arrière-pays de Médine.

Ainsi commence la gigantesque saga, avec le portrait majestueux de Fayçal, le prophète, l'icône de la rébellion. C'est lui qui va réunir les tribus, les réconcilier, les rallier contre les Turcs. C'est le frère loyal de Lawrence. Tel est le couple rayonnant de cette longue pérégrination guerrière à travers ce que Lawrence appelle le Hedjaz, c'est-à-dire l'Arabie des villes saintes, et plus largement un pays qui s'étend de La Mecque à Damas.

La légende de Lawrence est telle que le lecteur, gavé de gloses et de clichés, s'attend à un mélange inextri­cable de combats et de méditations dostoïevskiennes. Tant le personnage est réputé complexe, déchiré, masochiste. Mais les pages où il confie ses dilemmes et ses vertiges sont finalement limitées par rapport à l'insatiable tableau des courses, des escarmouches, des bivouacs virils, des sabotages à la dynamite de voies ferrées et de ponts.

La cavalcade épique occupe la presque totalité du livre, à part un préambule caustique et une parenthèse au bout de huit cents pages où Lawrence prend du recul et révèle soudain un tout autre portrait de lui-même, sous le masque du guerrier et du militant de la cause arabe. Il se qualifie « d'escroc à succès » et « d'imposteur impie ». C'est un précipice qui s'ouvre au cœur du héros et de son épopée pour les scinder en deux parts irréconciliables. Un divorce entre l'action et la pensée.

On tue, on fouette, on torture à tout-va !

Le mythe de Law­rence va prospérer au tranchant de cette faille. Lawrence opère cette volte-face vertigineuse qui retourne le colonel efficace et fervent en traître attifé en Bédouin, en sceptique très occidental, persuadé de son échec, de son égotisme, Zarathoustra raté, miné par la culpabilité et l'autoflagellation. Car, dès le départ, Lawrence a deviné que les Britanniques veulent canaliser et contrôler le désir d'indépendance des Arabes, il ne croit donc au succès de sa mission que dans la brûlure de l'action.

Pourtant, c'est un combattant clairvoyant, entouré de cheikhs tribaux truculents et divisés, plus amateurs de razzias que du ­fantasme de l'unité arabe. ­Certaines tribus partent pour la bataille avec leurs esclaves armés de dagues, en croupe des méharis. Lawrence admire leurs cuisses noires et musclées. D'autres se dénudent carrément dans l'assaut pour que leurs vêtements souillés n'infectent pas leurs blessures. Et Lawrence de savourer le spectacle des volées de ­jambes athlétiques et brunes. Son homosexualité n'est jamais avouée directement. Mais il chouchoute un couple de serviteurs juvéniles, amants l'un de l'autre, facétieux et transgressifs à souhait. Leurs foucades garçonnières agrémentent la ritournelle des tueries. Car on tue, on fouette, on torture à tout-va ! Lawrence, lui-même, exécute de trois balles un soldat fautif. Il en fait une description détaillée. Le fameux sadomasochisme du personnage n'est jamais revendiqué, il se déduit de la somme des souffrances infligées et endurées dans les déserts torrides parcourus par des méharistes coriaces et cruels.

L'originalité du livre tient à la multitude d'actes bruts commis dans des paysages décrits avec une exactitude de géologue et de géographe. Ce qui prime est la souplesse, la précision, la prégnance, la frontalité du récit. C'est le roman physique des granits dressés en embuscade, des grès, des laves, des dunes diamantines, des silex coupants, des puits antiques, des dromadaires omniprésents, de leurs selles somptueuses, des oueds, des gorges piranésiennes et des vallées parfumées. La chimère de Lawrence va échouer en 1920, puisque les Britanniques ne vont pas honorer leurs promesses faites aux Arabes.

Depuis Œdipe, pas de mythe sans Sphinx, sans duplicité, sans échec, sans dérapage pervers. Jamais un aventurier n'a été capable d'être à la fois aussi clair et concret dans l'action et aussi abstrait dans la méditation amère qui la récuse. Cette monstruosité, ces deux bords d'une blessure qui ne peut cicatriser, voilà la chair béante du mythe qu'un accident de moto viendra nimber de mort absurde.

Les Sept Piliers de la sagesse de Thomas Edward Lawrence traduit de l'anglais par Éric Chédaille Phébus, 1 072 p., 25 €.

dimanche, 17 mai 2009

Malta: dal Congresso di Vienna alla Prima Guerra Mondiale

Malta: dal Congresso di Vienna alla Prima Guerra Mondiale

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Tratto da Rinascita

Di Achille Ragazzoni

Dopo il periodo cavalleresco ed il turbine dell’epoca napoleonica, che aveva visto Malta prima sotto la sovranità francese e poi occupata dalle armi britanniche, si arrivò al Congresso di Vienna, una sorta di grande mercato dove i popoli e le nazioni venivano venduti all’incanto per soddisfare le brame di imperialisti non meno pericolosi (anzi, ancor più pericolosi!) di Napoleone. Per sollevare i popoli contro la Francia imperiale si era fatto leva proprio sul sentimento nazionale, promettendo quella libertà nazionale nata come idea proprio nella Francia del 1789 ma che proprio dalla Francia veniva, generalmente, calpestata. Una volta sconfitto Napoleone, però, ci si dimenticò delle promesse fatte (ricordate il verso mazziniano: “O stranieri!/ Sui vostri stendardi/ sta l’obbrobrio di un giuro tradito” e si volle tornare sic et simpliciter all’Antico Regime, se possibile ancora peggiorato. Pensare che in una situazione come quella, dove ogni diritto nazionale veniva calpestato, qualcuno si preoccupasse delle aspirazioni nazionali maltesi, è addirittura ridicolo. Il Congresso di Vienna, quindi, confermò la sovranità britannica su Malta che diveniva, a tutti gli effetti, una colonia.

Gli unici che tentarono di opporsi a questo stato di cose, è giusto ricordarlo, furono i Borboni di Napoli, che non vollero mai giuridicamente riconoscere la definitiva perdita dei loro antichi diritti sull’arcipelago maltese. Anche i Cavalieri di Malta, le cui lamentele in sede congressuale non vennero neppure ascoltate, provarono vanamente ad opporsi. Per evitare che a Malta, Paese profondamente cattolico, questioni religiose potessero degenerare in questioni nazionali, il governo britannico ottenne dal papa Gregorio XVI che la Diocesi di Malta non dipendesse più da quella di Palermo e che la Corte di Napoli (ove regnava pur sempre un sovrano italiano, ancorché del tutto indifferente alla questione dell’unità nazionale) non potesse più vantare diritti sulle questioni ecclesiastiche maltesi. Malta, terra culturalmente italiana, divenne meta d’esilio per parecchi patrioti italiani perseguitati, dal governo borbonico ma non solo. Tra gli esuli per il fallimento dei moti del 1821 ricordiamo il poeta e dantista Gabriele Rossetti, il generale Michele Carascosa e Raffaele Poerio, che dalle autorità britanniche subì persecuzioni non molto diverse da quelle subite dalle autorità borboniche… Un’altra ondata di profughi politici italiani raggiunse Malta dopo il fallimento dei moti del 1831. Tra essi i coniugi Tommaso e Ifigenia Zauli Sajani, che daranno lustro alle lettere e al giornalismo maltesi, ed i membri della famiglia Fabrizi, che molta rilevanza avranno nel movimento mazziniano.

A Malta la libertà di stampa venne concessa nel 1839 (nella penisola praticamente non esisteva ancora…) e di essa approfittarono i patrioti colà esuli per provocare, con la diffusione clandestina di libri e giornali negli stati preunitari, positivi contraccolpi in senso patriottico. Il giurista Luigi Zappetta con due suoi giornaletti (”L’Unione” e “Giù la tirannide”) mise non poco a soqquadro gli ambienti politici napoletani, sostenendo la causa di Carlo di Borbone, principe di Capua e fratello del re, anch’egli in esilio a Malta per i suoi sentimenti liberali. Il principe Carlo, nel 1847, tenterà uno sbarco in Sicilia alla testa di 200 uomini armati. Gli ideali nazionali italiani iniziarono a diffondersi anche tra la borghesia maltese e molti maltesi aderirono alla Giovine Italia (tra essi i quattro fratelli Sceberras, che per il loro impegno patriottico possono essere definiti “i Cairoli di Malta”) e al movimento mazziniano in generale. Sul giornale “Il Mediterraneo” il già ricordato Tommaso Sauli Zajani rivendicava l’italianità di Malta, e tale rivendicazione gli procurerà non poche noie.

Nel 1847 giunse sull’isola come governatore l’irlandese Richard More O’Ferral, che nel biennio 1848-49 espulse da Malta alcuni tra i patrioti italiani più accesi, essendosi reso conto che l’incendio nazionalista che divampava in Italia avrebbe facilmente potuto estendersi all’arcipelago. Intanto alcuni patrioti maltesi, il dr. Giancarlo Grech-Delicata, Enrico Naudi ed il dr. Filippo Pullicino costituirono un’associazione per inviare mensilmente contributi in denaro a Venezia assediata dagli austriaci; uno dei motivi per cui i maltesi avrebbero dovuto sostenere la lotta della coraggiosa città era il richiamo alle “comuni leggi, usi, costumanze, religione e lingua”. Un gesto particolarmente odioso del famigerato O’Ferral fu, nel luglio del 1849, il rifiuto di far sbarcare gli esuli della Repubblica Romana, guidati da quel Nicola Fabrizi che era già stato esule nell’isola. Le proteste furono molte, sia a Malta, che a Torino che a Londra, ma O’Ferral ascoltò chi, come l’allora vescovo, indicava i danni incalcolabili che quei patrioti avrebbero portato “in questo piccolo paese di cui parlano la lingua”.

Costretto a giustificarsi di fronte ai propri superiori O’Ferral affermò esplicitamente che l’intimo contatto dei patrioti italiani con la popolazione maltese, facilitato anche dall’identità di lingua e di costumi, avrebbe potuto far nascere in seno a quest’ultima aspirazioni di libertà e di indipendenza nei confronti dell’Inghilterra, quando non addirittura una precisa volontà di entrare a far parte integrante della nazione italiana. Ed in effetti, poco tempo prima, era sorta l’”Associazione Patriottica Maltese”, guidata da Gian Carlo Grech-Delicata, che con due organi di stampa, “L’Avvenire”, in italiano, e “Il Malti”, in maltese, mostrava coincidenza di vedute e di concezione del mondo con i patrioti risorgimentali italiani.

L’associazione si sciolse da solo per evitare, probabilmente, di essere posta fuori legge dal governatore O’Ferral. Nella primavera del 1850 giunsero a Malta i reduci della “Legione Italiana” che, comandata dal colonnello Alessandro Monti, bresciano, aveva combattuto a fianco dei patrioti ungheresi contro i russi e gli austriaci. In rotta per Cagliari, da Gallipoli in Turchia ove erano partiti (si noti che dal governo ottomano essi erano stati trattati assai umanamente, tanto che qualche legionario, forse per riconoscenza, si era avvicinato all’Islam), O’Ferral impedì lo sbarco degli uomini e poi, dopo vibrate proteste del console sardo, acconsentì che sbarcassero solo gli ufficiali. Il colonnello Monti rispose che né lui né sua moglie, per inciso un’inglese, sarebbero sbarcati. Giunti a Cagliari Monti inviò alla stampa una relazione che provocò un incidente diplomatico tra Torino e Londra ma che ebbe, perlomeno, una conseguenza positiva, ossia le dimissioni del governatore di Malta per non meglio precisati motivi di salute.

I patrioti italiani rifugiati a Malta venivano sovente aiutati dal fratelli Sceberras, referenti locali della mazziniana “Giovine Italia”. Troppi sarebbero i patrioti esuli a Malta da ricordare: tra i più importanti Nicola Fabrizi, che a Malta visse molti anni e Francesco Crispi, che giunse sull’isola nel 1853 e che pubblicò anche scritti di storia maltese. Dopo la liberazione delle Due Sicilie, invece, si rifugiarono a Malta diversi nostalgici del regime borbonico e scoppiarono non poche zuffe tra nostalgici e fautori del nuovo ordine.

Grande successo ebbe la visita di Garibaldi a Malta, che sbarcò il 23 marzo 1864 assieme ai suoi figli Menotti e Ricciotti ed al segretario Giuseppe Guerzoni, suo futuro biografo. Ancora claudicante per la ferita di Aspromonte, il Nizzardo prese alloggio all’Hotel “Imperial” e qui ricevette un sacco di entusiasti ammiratori, che gli venivano via via presentati da Nicola Fabrizi ed Emilio Sceberras. Malta aveva dato, nel 1860, due valorosi volontari, arruolatisi dopo Marsala, alle schiere garibaldine: Giorgio Balbi e Giuseppe Camenzuli.

Due giovani ed entusiasti patrioti maltesi, i ventiquattrenni Ramiro Barbaro e Zaccaria Roncalli, scrissero un indirizzo di saluto al Duce delle Camicie Rosse, indirizzo che venne firmato da oltre trecento personalità maltesi e che gli venne consegnato dalla baronessa Angelica Testaferrata Abela. L’indirizzo era così concepito: “Signor Generale, i Maltesi, onorati dalla visita del primo uomo del secolo, esprimono a lui i loro sentimenti d’ossequio e d’amore, augurando a Giuseppe Garibaldi, l’eroe italiano, la felice riuscita di ogni sua impresa, che è sempre rivolta al bene dell’umanità e del progresso”. La risposta di Garibaldi, consegnata alla stessa baronessa, suonava: “Mando una parola d’addio e di riconoscenza alla brava popolazione maltese, e l’accerto che giammai nella mia vita oblierò la fraterna accoglienza di cui volle onorarmi”.
Uno degli autori materiali del messaggio fu, come si è detto, Ramiro Barbaro, marchese di San Giorgio che nel 1861, appena ventunenne, aveva pubblicato l’opuscolo “Napoli, i Borboni e il Governo Italiano”, che era un inno all’Italia una ed indivisibile. Poco dopo fonderà il giornale “Il Progressista”, fortemente nazionalista e nel 1870 il “Don Basilio”, dai toni ancora più accesi.

Eletto consigliere di governo, si diede molto da fare per migliorare le condizioni morali e materiali dei maltesi. Odiato dagli anglofili, nel 1877 venne arrestato sotto l’accusa di aver offeso il prestigio del governatore e fu costretto all’esilio in Italia. Qui scrisse il romanzo storico “Un martire”, ambientato nella Malta del Cinquecento, pubblicato in italiano a Città di Castello nel 1878 e presto tradotto in maltese. Tornò nell’isola natale solo nel 1912 e passò a miglior vita, quasi completamente cieco, nel 1920. Chi raccolse, in un certo senso, il testimone da Ramiro Barbaro fu Fortunato Mizzi (1844 - 1905), ardente italofilo. Nel 1883 fondò il giornale “Malta”, divenuto presto quotidiano e poi soppresso dalle autorità britanniche. Con una schiera di validissimi collaboratori, tra cui vale la pena ricordare Benoit Xuereb, i fratelli Paolo ed Ernesto Manara (fondatori del battagliero giornale “Il Diritto di Malta”), Antonio Cini, Filippo Sceberras, Salvatore Castaldi, Arturo Mercieca, Salvatore Cachia Zammit, a Fortunato Mizzi riuscì il miracolo che prima di lui non era riuscito a nessuno dei più ardenti patrioti: quello di far prendere coscienza della propria italianità anche al popolo minuto. Proprio in quel periodo iniziò un’aperta lotta contro la lingua italiana a Malta, ma Fortunato Mizzi difese molto bene la lingua di Dante, appoggiato dal popolo maltese. Nel 1887, in seguito alla campagna promossa da Fortunato Mizzi, Londra costrinse alle dimissioni il direttore della Pubblica Istruzione, fiero italofobo, e concesse una costituzione molto più liberale e democratica di quella in vigore dal 1849, dove la lingua italiana veniva esplicitamente tutelata.

Poco tempo dopo però, calmatesi le acque, la costituzione venne emendata in senso antidemocratico e la lotta alla lingua italiana riprese, tanto che il 15 marzo 1899 un’ordinanza introduceva l’inglese come lingua giudiziaria nei tribunali per i sudditi britannici non naturalizzati maltesi, mentre un dispaccio ministeriale emesso nella stessa giornata manifestava l’intenzione di arrivare, entro quindici anni, al bando della lingua italiana in tutte le pratiche legali e giudiziarie. La reazione dei maltesi fu vigorosa e per la prima volta si chiese aiuto all’opinione pubblica italiana. Significativo un episodio accaduto nel 1901 a Noto, in Sicilia, dove per la festa del patrono si erano recati circa 700 maltesi il cui capogruppo pronunciò in pubblico parole che non potrebbero essere più chiare: “Siamo italiani e italiani vogliamo rimanere a costo di perdere tutto, anche la vita. Il diritto e la ragione ci assistono. Dio ci aiuta. Siamo italiani. Ce lo dice la religione che professiamo e soprattutto ce lo dice la lingua che parliamo e che vorrebbero togliere dalle nostre labbra”.

A Malta Fortunato Mizzi ed Arturo Mercieca fondavano nello stesso anno il circolo nazionalista “La Giovine Malta”, autentica fiaccola di italianità. Il Mercieca durante il discorso inaugurale disse che i maltesi mai si sarebbero adattati “… a vedere esulare dai loro lidi il linguaggio più bello e musicale che voce umana abbia mai pronunciato”, quel linguaggio per cui i maltesi avevano tutti i diritti di considerare come propria “l’arte divina di Dante e del Manzoni”.

Nel marzo del 1902 Giovanni Pascoli, docente all’Università di Messina, dedicò l’ode latina “Ad sodales Melitenses” ad un gruppo di studenti maltesi in visita in Sicilia e l’intervento del grande poeta servì a rendere più popolare la causa maltese in Italia. Anche il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta e Sidney Sonnino fecero garbate pressioni sul governo britannico, così come, va riconosciuto, fece il proprio dovere in pro di Malta anche il corrispondente del “Times” a Roma, Wickam Steed. Alla fine il governo britannico, ufficialmente per deferenza nei confronti dell’Italia con cui voleva intrattenere buoni rapporti, ritirò il famigerato proclama sulla lingua. Il 18 maggio muore Fortunato Mizzi e la sua scomparsa non è priva di conseguenze per il movimento nazionalista: mentre i patrioti più intransigenti si stringono intorno a monsignor Ignazio Panzavecchia, altre correnti perdono tempo a polemizzare tra di loro o a propugnare forme di collaborazionismo.

Nel gennaio del 1912 ad opera di alcuni giuristi si costituisce un battagliero Comitato Pro Lingua Italiana. Ad esso aderiscono di cuore anche gli studenti nazionalisti che, riuniti in assemblea, così deliberano: “Gli studenti dell’Università si associano al movimento iniziato dalla Camera degli Avvocati a favore della lingua italiana, di cui l’esistenza nelle leggi e nei tribunali sembra nuovamente minacciata, convinti che per ragioni etniche, storiche, economiche e sociali, essa debba continuare a regnarvi sovrana, e che la sua soppressione costituirà da parte della nazione britannica una ingiustificata violazione delle sue promesse, una improvocata violenza, soverchiatrice del diritto, e per il popolo maltese un’offesa al suo nazionalismo secolare, una grave iattura ai suoi più vitali interessi”. La preoccupazione non era del tutto ingiustificata, in quanto nel 1912 una commissione reale propose la sostituzione dell’italiano con il maltese nei procedimenti orali delle corti inferiori e con l’inglese in certi tipi di cause. La parte nazionalista promosse allora, il 2 luglio 1912, una poderosa manifestazione al Teatro Manoel. Parlò il vecchio Ramiro Barbaro che dichiarò, tra il resto: “… ci mettono innanzi il dialetto maltese, molto simpatico del resto, per farne sgabello a un’altra lingua… la quale lingua si vuole sovrapporre alla lingua italiana, alla più bella fra quante si parlano in Europa… Nella nostra lealtà resisteremo affinché ci resti la cara favella. In questa vecchia anima di poeta e di patriota trovo ancora la forza, in sostegno della bellissima lingua, da me insegnata lunghi anni all’estero, di cui fo anche oggi uso, in servizio de’ miei concittadini. E a chi domanda di rinunziarvi, rispondo con un’espressione, una parola, un solo monosillabo, forte, come indignazione di popolo: no, no, no”. La manifestazione approvò una mozione in cui la proposta britannica veniva definita “inopportuna, dannosa e offensiva”.

Altra splendida figura del nazionalismo maltese fu Enrico Mizzi, figlio di Fortunato. Studiò legge in Italia e aderì sin dai primi tempi all’Associazione Nazionalista Italiana, divenendo assiduo collaboratore de “L’Idea Nazionale”. Nel 1911, al Teatro Argentina di Roma, tenne un’applaudita conferenza sull’italianità di Malta. Tornato in patria divenne molto popolare e la sua attività pubblicistica e politica si distinse per una intransigente difesa dell’italianità. Il 27 marzo 1917, nel Consiglio di Governo ove era deputato, tenne un fiero discorso sottolineando che la Gran Bretagna, scesa in guerra per difendere il diritto delle nazionalità oppresse, ben si guardava dall’applicare i principi per i quali combatteva alle nazionalità che facevano parte del suo vasto Impero. I deputati godevano dell’immunità parlamentare, soprattutto per le affermazioni contenute nei discorsi ufficiali, ma evidentemente per Enrico Mizzi la prerogativa non valeva, in quanto il 7 maggio successivo venne arrestato e tenuto in isolamento per quattro mesi! Al processo di fronte alla corte marziale venne accusato di avere con dichiarazioni a voce (il discorso parlamentare) e scritte (interpolazioni nella versione scritta del discorso che però furono riconosciute false dallo stesso pubblico ministero), tentato di far venire meno l’affetto dei maltesi nei confronti di Sua Maestà Britannica, nonché di essere in possesso di documenti che, se pubblicati (in realtà articoli di giornali già abbondantemente pubblicati su giornali italiani…) avrebbero potuto nuocere alle amichevoli relazioni tra Gran Bretagna ed Italia. Mizzi dichiarò: “Io sono d’opinione che la migliore soluzione del problema maltese sarebbe l’annessione di Malta all’Italia. Ma fino a quando alla provvidenza piacerà di tenerci sotto la bandiera inglese, il nostro dovere è di mantenerci leali alla Corona britannica. Come pensatore e come studioso della questione ritengo che il nostro destino naturale è di far parte della grande famiglia nazionale, alla quale apparteniamo geograficamente e storicamente; ma, ripeto, sino a tanto che ci troviamo sotto il Governo britannico, penso che tutti debbono esser leali al Governo britannico ed osservarne le leggi”. Enrico Mizzi venne condannato ad un anno di reclusione ed alla perdita dei diritti civili e politici.

Terminata la guerra, ai maltesi sorse l’idea di costituire un’Assemblea Nazionale che potesse effettivamente rappresentare le aspirazioni del popolo maltese. Il vecchissimo mazziniano Filippo Sceberras si dichiarò disposto a prendere l’iniziativa per la sua costituzione e l’Assemblea Nazionale sorse proprio nei locali della “Giovine Malta” (il nuovo nazionalismo si legava direttamente al Risorgimento…); la prima deliberazioni fu di chiedere a Londra una forma di governo che rispettasse i caratteri nazionali maltesi, “salvo ogni altro maggiore diritto che sarà eventualmente riconosciuto a queste Isole dalla Conferenza della Pace”. Evidentemente si sperava che dalla pace sorgessero o l’indipendenza di Malta o la sua annessione all’Italia, ma le cose andarono diversamente…

jeudi, 07 mai 2009

La mission de Sixte de Bourbon-Parme

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Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1989

 

La mission de Sixte de Bourbon-Parme

Tamara GRIESSER-PECAR, Die Mis­sion Sixtus. Österreichs Frie­dens­versuch im Ersten Welt­krieg, Amalthea, Wien/ München, 1988, 414 S., DM 38.

 

La guerre sévissait depuis deux ans déjà, lorsque l'Empereur et l'Impératrice d'Autriche-Hongrie déci­dèrent, en décembre 1916, de me­ner des négociations secrètes extraordinaires. Par l'intermédiaire des Princes Sixte et Xavier de Bourbon-Parme, de leur propre chef et sans en avertir l'allié allemand, l'Empereur Charles et l'Impératrice Zita, prirent des contacts secrets avec les autorités politiques des puis­sances de l'Entente, la France et la Grande-Bretagne. Leur objectif: obtenir la paix, tant qu'il y avait encore quelque chose à sauver. En effet, le couple im­périal était parfaitement conscient de la volonté française d'éclater l'ensemble austro-hongrois en plusieurs pe­tites nations aisément contrôla­bles, qu'on pourrait té­léguider depuis Paris contre Berlin et Vienne. Par la paix anticipée qu'ils espéraient obtenir, ils voulaient éviter un sort funeste à l'œuvre politique plurisécu­laire de leurs ancêtres. Les tractations auront quelque chose de tragique: les intermédiaires de l'Em­pereur étaient tous deux officiers de l'armée bel­ge, en guerre contre l'Allemagne, alliée de l'Autriche-Hongrie. Les négociations, menées sans que Berlin le sache, fini­ront par être con­nues de tous et faire passer Charles de Habs­bourg pour un traître qui complotait dans le dos de l'Allemagne.

Les Allemands d'Autriche lui en voudront cruellement. Mais l'intérêt du livre de Ta­mara Griesser-Pecar ne réside pas seule­ment dans la narration détaillée de cette affaire, mais aussi dans l'analyse du rôle de l'Italie dans l'échec des négocia­tions secrètes. En plein mi­lieu de celles-ci, l'Italie es­suie un cuisant échec militaire, ce qui renforce la po­sition de l'Au­triche et déforce celle des Alliés, qui avaient es­compté des victoires italiennes pour faire fléchir Vienne. Les Autrichiens avaient le dessus et pouvaient demander des conditions de paix ho­no­­rables, d'autant plus que des unités françaises s'étaient mutinées après les offensives inutiles de George Nivelle. Des grèves secouent la Fran­ce et les ouvrières descendent dans les rues en criant: «Nous voulons nos maris!».

Deux projets différents ani­maient alors la diplomatie française: 1) celui de main­tenir l'Autriche-Hon­grie telle quelle, afin de faire contre-poids à la Prusse et de ne pas créer le chaos en Europe Centrale et 2) celui d'éliminer l'Empire des Habsbourgs, de le morceler et d'instaurer des régimes d'idéologie républicaine et illuministe en Europe Centrale. La deuxième solution finira par l'emporter. Dans ce contexte, le Prince Sixte arrive à Paris et ex­plique que l'Italie est prête à faire une paix séparée à condition que l'Autriche cède le Trentin italophone (pas le Sud-Tyrol germanophone), avec pour com­pensation, l'en­semble ou une partie de la Somalie. La France et l'Angleterre ont donc intérêt, elles aussi, à signer une paix séparée avec l'Autriche. Lloyd George était favorable au projet, car les évé­nements de Russie laissaient entrevoir la ces­sation des hostili­tés entre Russes et Allemands, le Prince Lwow ayant contacté les autorités du Reich en ce sens. De ce fait, l'Italie et la Russie risquaient de quitter l'Entente et de laisser Français et Britanniques seuls face aux armées allemandes et austro-hongroises. Poincaré et Ribot rétorquent que ni les intérêts serbes ni les intérêts roumains ni la question polonaise n'ont été pris en compte par le vieux monarque au­trichien. Les Fran­çais se montrent très réticents à l'endroit du projet vi­sant à coupler la ré­trocession du Trentin à l'Italie et la récupération de l'Alsace-Lorraine. En effet, si l'Italie reçoit le Trentin, elle cessera de se battre et l'Entente manquera de troupes pour arracher par les armes les départements alsaciens et lorrains à l'Alle­magne.

Les Alliés occidentaux se rendaient comp­te que l'Italie jouait son jeu seule mais que son poids militaire était tel qu'ils ne pouvaient la négliger. Le 3 juin 1917: coup de théâtre: l'Italie proclame qu'elle entend exer­cer un protectorat sur l'Albanie, coupant de la sorte l'accès de la Serbie à la mer. Le petit royaume slave des Balkans ipso facto ne pouvait plus acquérir un ac­cès à l'Adriatique qu'en grignotant le territoire aus­tro-hongrois, situation inacceptable pour Vienne. Au même moment, les Slovènes, Croates et Serbes à l'intérieur de la monarchie souhaitent constituer un royaume constitutionnel séparé selon le modèle hon­grois.

Les contra­dictions internes de la monarchie la fragilise et la tenacité du Ministre italien Sonnino, im­posant aux Alliés ses vues sur l'Albanie malgré les revers militaires italiens, négociant avec les Anglais et les Français un partage des Iles de l'Egée et du terri­toire turc, fait échouer les pourparlers entre Sixte et les autorités anglaises et françaises. De plus, les pro­positions de paix italiennes ne venaient ni de Sonnino ni du Roi d'Italie, ce qui réduisait considérablement les chances de l'Empereur autrichien et des frères de Bourbon-Parme. Le livre de Tamara Gries­ser-Pecar est une enquête très serrée qui nous permet de saisir la vision européenne et pa­cifiste, éloignée des engoue­ments idéologiques générateurs de carnages abomi­nables, des Bour­bon-Parme et des Habsbourgs. Al­bert Ier y avait pleinement souscrit. La réussite de leurs projets aurait évité la seconde guerre mondiale et la partition de l'Europe à Yalta (Robert Steuckers).

dimanche, 03 mai 2009

Le Japon et les Centraux pendant la première guerre mondiale

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1987

Le Japon et les Centraux pendant la première guerre mondiale

Josef KREINER (Hrsg.), Japan und die Mittelmächte im Ersten Welt­krieg und in den zwanziger Jahren, Bouvier Ver­lag/Herbert Grund­­mann, Bonn, 1986, 253 S.

 

Dans cet ouvrage collectif, on lira surtout avec profit les conclusions de Rolf-Harald Wippich sur l'histoire des relations germano-japonaises avant la première guerre mondiale. Les rapports entre l'Allemagne et le Japon sont alors essen­tiel­lement déterminés par le facteur russe. Japonais et Allemands voulaient mé­nager la Russie qui se rapprochait de la France. En 1898, Ito Hirobumi déclare: «Le Japon doit tenter de s'entendre avec St. Petersbourg et de partager la gran­de sphère d'intérêts de l'Orient avec sa puissante voi­sine. L'Allemagne pourrait jouer un rôle important en tant que troisième partenaire». Le Japon n'octroyait à Berlin qu'un rôle sub­alterne. Et, en Allemagne, per­sonne n'avait un projet cohérent de politique ex­trême-orientale. Le Japon n'était pas considéré comme un facteur en soi dans les calculs allemands, mais comme une variable de la politique chinoise. Les Ja­ponais jouissaient d'une certaine bienveillance: la va­riable qu'ils constituaient agissait vaguement dans le sens des projets allemands, surtout quand ils avaient maille à partir avec la Russie, ce qui allégeait la pres­sion slave aux frontières orientales du Reich.

Le dés­intérêt pour le Japon en Allemagne vient d'un préjugé: le Japon s'est borné à imiter servilement le système prussien en amorçant l'ère Meiji. De surcroît, les Al­lemands souhaitent que les Russes jettent tout leur dé­volu en Extrême-Orient et s'emparent de la Mand­chourie et de la Corée. L'Empereur Guillaume, te­naillé par son obsession du «péril jaune», veut que la région soit sous domination «blanche», russe en l'oc­currence. De cette façon, les Russes ne seront pas disponibles pour un projet panslave de balkanisation de l'Europe centrale au détriment de l'Autriche et au bénéfice direct de la France. Le Japon, même s'il a agi dans un sens favorable à l'Allemagne en Chine et s'il a montré à la Russie que le véritable danger était à l'Est et non en Europe Centrale, reste un facteur qui peut troubler les relations germano-russes. Ce souci de conserver de bons rapports avec la Russie conduit les Allemands à négliger les approches du cabinet germanophile de Yamagata/Aoki (1898-1900) et à ne pas conclure un pacte tripartite dans le Pacifique avec l'Angleterre et le Japon. En 1902, Anglais et Japonais signent un traité d'alliance sans l'Allemagne, qui n'est plus que spectatrice dans le Pacifique Nord. Occupant la forteresse de Kiao Tchéou, avec un  hinterland  chi­nois, l'Allemagne pouvait jouer un rôle d'arbitrage dans le conflit russo-japonais, tant que celui-ci restait latent. Après les événements de 1905 et la défaite de la Russie, la Japon est maître du jeu en Extrême-Orient; l'Empire des Tsars se tourne vers l'Europe et la stra­tégie du «para-tonnerre japonais» ne joue plus en fa­veur du Reich. Conclusion: l'Allemagne, maîtresse de la Micronésie, restait la dernière puissance euro­péenne à éliminer dans la sphè­re d'influence directe du Japon. Ce sera le résultat de la première guerre mondiale dans la région.

 

Dans ce même volume, signalons également l'étude de Félix Moos (en langue anglaise) sur la Micronésie. Longtemps espagnol, l'immense archipel passe aux Allemands pour la somme de 4.500.000 dollars en 1899. Le Japon en prendra possession après Ver­sailles. Pour le géopoliti­cien Haushofer, ce transfert dans les mains japonaises est normal et naturel, puisque le Ja­pon est une puissance non étrangère à l'espace Pacifique (Robert Steuckers).

vendredi, 27 février 2009

Le rejet de l'ordre européen avant 1914

Le rejet de l'ordre européen avant 1914 par Dominique Venner

Dans toutes les capitales, lors des conseils décisifs, les hommes politiques généralement médiocres cèdent devant les techniciens que sont les militaires. Ce ne sont pas sur des critères politiques que ces derniers s'appuient, mais exclusivement sur des impératifs techniques. On peut dire ainsi que le déclenchement de la guerre de 1914 fut l'effet de la domination exercée par les nouvelles technostructures sur la pensée ou les desseins des politiques. Un tel « progrès » s'apprécie à ses résultats.

L'invocation de ces circonstances ne peut empêcher que se pose une question traumatisante. Les Européens ont été les seuls responsables de la guerre et donc de la catastrophe qui a suivi. S'ils ont produit les hécatombes insensées de cette guerre et les atrocités de la suivante, leur civilisation ne s'en trouve-t-elle pas moralement et politiquement condamnée ?

En réalité, la question est mal posée, car ce n'est pas la civilisation européenne qui a provoqué la guerre en 1914, mais au contraire son rejet. Après les désastres des guerres de Religion et de la guerre de Trente Ans (1618-1648), les négociateurs des traités de Westphalie (1648) avaient jeté les bases d'un nouvel « ordre européen » sur les décombres de la Chrétienté, nous y avons déjà fait allusion. Cet ordre ou ce concert s'est maintenu jusqu'en 1914. Pour l'essentiel, il était fondé sur la conscience forte de l'appartenance à une même famille de dynasties et de peuples entre lesquels les guerres devaient rester limitées et soumises au « droit des gens européens » (jus publicum europeaeum) défini en 16481. Ce droit européen impliquait une parfaite symétrie entre lés États. Chacun reconnaissait que la cause des autres était juste. Cette conception permettait de négocier des traités avec l'ennemi de la veille sans en faire un criminel. Il était seulement un adversaire ayant lutté pour une cause juste. Et il pouvait devenir l'allié du lendemain.

Ce droit européen souffrit une première atteinte durant les guerres de la Révolution. Les révolutionnaires français donnèrent d'emblée à leur guerre un caractère idéologique, prétendant au monopole de la juste cause et justifiant la haine illimitée de l'ennemi (les « tyrans »). Néanmoins, en 1815, au Congrès de Vienne, l'Europe renoua avec le principe de son droit des gens. La pratique des conférences permit de traverser tout le XIX siècle sans guerre généralisée. Mais alors pourquoi cet équilibre a-t-il basculé en 1914 ?

En plus de toutes les raisons humaines et techniques que nous avons déjà invoquées, il faut aussi tenir compte de l'abandon de l'ancienne culture politique qui avait jusque-là prévalu. Le concert européen reposait sur des valeurs de civilisation communes à toutes les élites dirigeantes. « Or, depuis la fin du XIXè, la démocratisation de la vie publique, l'arrivée au pouvoir de couches nouvelles, remettent en cause ce véritable club international qui avait jusque-là géré les affaires européennes.» (1) En d'autres termes, les valeurs fondatrices de la
civilisation européenne avaient été abandonnées. Ce ne sont donc pas elles qui ont conduit à la catastrophe, mais leur oubli.

L'éveil des passions nationalistes et des haines entre Européens à la veille de 1914 et au-delà est une manifestation de cet oubli.

Dominique Venner, Le Siècle de 1914, Pygmalion, 2006.

Notes
1- Georges-Henri Soutou, conclusion à l'ouvrage collectif, L'Ordre européen du XVIè au XXè siècle
, 1998.

mercredi, 07 janvier 2009

Walter Flex: une éthique du sacrifice au-delà de tous les égoïsmes

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Robert STEUCKERS:

Walter Flex: une éthique du sacrifice au-delà de tous les égoïsmes

 

Né à Eisenach en 1887, Walter Flex a grandi dans une famille de quatre garçons: son frère aîné, Konrad, qui a survécu à la tourmente de la guerre, et deux cadets, Martin, qui mourra des suites de ses blessures et d'une pneumonie en 1919, et Otto, qui tombera en France en 1914. Son père décèdera en juillet 1918 et sa mère en octobre 1919. Konrad Flex, seul survivant de cette famille unie, préfacera en 1925 les deux volumes des œuvres complètes de son frère. Le père Rudolf Flex était un grand admirateur de Bismarck; esprit religieux, mais éloigné des églises, il est un croyant plus ou moins panthéiste, proche de la nature, qui s'engage résolument dans un combat politique national-libéral, pétri de l'esprit du «Chancelier de Fer». A l'occasion, Rudolf Flex rédige des poèmes ou des petites pièces de théâtre d'inspiration nationale, que jouent en partie sa propre femme et ses enfants. Homme du peuple, issu de lignées de paysans et d'artisans, parfaitement au diapason de ses concitoyens, Rudolf Flex s'intéresse au dialecte d'Eisenach, sur lequel il publie deux petits travaux de philologie. Sa mère, née Margarete Pollack, lui transmet un héritage plus précis, bien qu'hétérogène à première vue: enthousiasme pour l'aventure prussienne et l'éthique qui la sous-tend, religiosité encadrée par l'église évangélique, culte du premier empereur Hohenzollern. Dans la transmission de cet héritage, explique Konrad Flex, il n'y a aucune sécheresse: Margarete Pollack-Flex possède les dons de l'imagination et de la narration, assortis d'une bonne culture littéraire. La mère des quatre frères Flex a de nombreuses activités publiques dans les œuvres de bienfaisance de la ville d'Eisenach, notamment dans les associations caritatives placées à l'enseigne du roi de Suède, Gustave-Adolphe, champion de l'Europe septentrionale protestante au XVIIième siècle. Cet engagement social dans le cadre protestant-luthérien montre l'impact profond de ce protestantisme national dans le milieu familial de Walter Flex. Les associations caritatives protestantes tentaient de faire pièce à leurs équivalentes catholiques ou socialistes. Pendant la guerre, Margarete Pollack-Flex s'est engagée dans les associations qui venaient en aide aux soldats revenus du front.

 

Konrad Flex conclut: «L'intérêt pour les choses de l'Etat et pour l'histoire, la volonté d'œuvrer dans les affaires publiques, la volonté de créer une œuvre littéraire, de dominer la langue par la poésie, l'humour, le talent d'imiter les paroles des autres et le sens des arts plastiques sont des qualités que Walter Flex a essentiellement hérité de son père; en revanche, sa mère lui a légué cette pulsion décidée et consciente d'accomplissement de soi et de négation de soi dans un cadre éthique, un sens aigu de l'observation de soi, l'imagination, le talent narratif, la pensée abstraite, un intérêt fort motivé pour la philosophie et, dans une moindre mesure, le souci des questions sociales».

 

Le jeune Walter Flex rédigera très tôt, à onze ans, ses premiers poèmes et sa première pièce de théâtre. Son tout premier poème fut rédigé à l'occasion du décès du Prince Bismarck. Pendant la guerre des Boers, il a pris passionnément le parti des colons hollandais, allemands et huguenots en lutte contre l'armée britannique. Ce sera encore l'occasion de quelques poèmes. A dix-sept ans, une petite pièce de théâtre, intitulée Die Bauernführer (Les chefs paysans) est jouée dans son Gymnasium et connaît un indéniable succès. Un peu plus tard, le lycéen Walter Flex rédige un drame plus élaboré, Demetrius,  basé sur une des thématiques les plus poignantes de l'histoire russe, débutant par la mort mystérieuse de Dmitri, fils d'Ivan le Terrible, vraisemblablement assassiné; à la suite de la mort de ce dernier descendant direct du chef varègue Rurik, trois faux Dmitri revendiquent successivement le trône occupé par Boris Goudounov, plongeant la Russie dans une suite ininterrompue de guerres civiles au début du XVIIième siècle. La version définitive de ce drame de Walter Flex ne paraîtra que quelques années plus tard, quand il sera à l'université. Le Théâtre de la Ville d'Eisenach le jouera en 1909.

 

Après le Gymnasium, il étudiera la philologie germanique et l'histoire à Erlangen et à Strasbourg entre 1906 et 1910. Pendant ses années d'études, il adhérera à une corporation d'étudiants, la Bubenruthia. Malgré un handicap à la main droite, qui le forçait à être gaucher, il était bon en escrime et redouté par ses challengeurs dans les duels traditionnels des étudiants allemands (la Mensur). Le 31 octobre 1910, il défend son mémoire sur «le développement de la problématique tragique dans les drames allemands sur la thématique de Demetrius, de Schiller à aujourd'hui».

 

De 1910 à 1914, il deviendra le percepteur des enfants de la famille Bismarck. D'abord de Nicolas de Bismarck, puis de Gottfried et Wilhelm. Outre cette fonction de précepteur, il assume la tâche de ranger et de classer les archives de la famille. Ce qui lui donne l'occasion de rédiger sa nouvelle historique Zwölf Bismarcks  (= Douze Bismarcks) et sa tragédie Klaus von Bismarck.  Ces ouvrages paraissent en 1913; la tragédie est jouée la même année au Théâtre de la Cour à Cobourg en présence du Duc. Ces récits sont pour l'essentiel pure fiction; il ne s'agit donc pas d'une chronique sur la famille Bismarck mais l'intention de l'auteur est de camper des profils psychologiques, qui affrontent le réel, le modèle selon leurs canons éthiques, politiques ou esthétiques ou connaissent l'échec en restant stoïques. En 1913, il publie également Die evangelische Frauenrevolte in Löwenberg (La révolte protestante des femmes à Löwenberg), au profit de la Gustav-Adolf-Frauenverein (Association féminine Gustav-Adolf) que présidait sa mère.

 

Ensuite Walter Flex devient précepteur des enfants du Baron von Leesen à Retchke en Posnanie. C'est là qu'il se trouve quand éclate la guerre en août 1914; il se porte tout de suite volontaire, en dépit de sa légère infirmité à la main droite qui l'avait auparavant dispensé du service militaire. Armé de ses convictions éthiques et stoïques, il se jure de mobiliser tous ses efforts pour vaincre les résistances du terrain, de la souffrance, de ses faiblesses physiques. Il demande à servir dans l'infanterie. Soldat-poète, ses vers enthousiasmeront ses contemporains, engagés sur tous les fronts d'Europe. Walter Flex combattra d'abord sur le front occidental, dans la Forêt d'Argonne. C'est le 3 octobre 1914 qu'il pénètre sur le territoire français avec son régiment. Il écrit, le 5, à ses parents: «Au moment où, avant-hier, nous franchissions la frontière française, il y avait un magnifique clair de lune à trois heures du matin. Nous pensions à la scène du Serment de Rütli dans le récit de Guillaume Tell et nous nous en sommes réjouis. Hier nous avons eu une longue marche, que je n'ai pas trouvé extraordinaire; nous avons pris nos quartiers de nuit dans la paille d'une écurie: au-dessus de nous un ciel tout éclairé par la lune que nous contemplions à travers le trou percé dans le toit par un obus. Du côté des hauteurs devant nous, vers lesquelles nous marchions, nous entendions le fracas des canons et le crépitement des fusils. Pendant la nuit nous pouvions apercevoir le bombardement de Verdun. Au-dessus des collines, des ballons captifs. Hier soir, j'ai passé la soirée autour d'un feu avec trois femmes françaises, heureuses d'entendre quelqu'un leur parler dans leur langue; elles me répétaient sans cesse: nous aussi nous serons Allemands».

 

Le 7 octobre, toujours dans une lettre à ses parents, sa philosophie générale de la guerre se précise: «Nos souffrances sont très grandes, mais c'est un sentiment sensationnel d'engager ses forces dans la lutte de notre peuple pour son existence». Quelques jours plus tard: «Le froid des nuits dans les hauteurs ardennaises nous transperce les os quand on est couché en plein champ ou dans les tranchées. Malgré cela, c'est un sentiment extraordinaire de se sentir membre de cette fraternité de fer qui protège notre peuple». Jamais la tendresse n'est absente quand il écrit à sa mère: «Très chère maman! Hier je t'ai envoyé trois violettes cueillies devant nos tranchées, et la première chose que je reçois aujourd'hui et qui m'illumine de joie, c'est ton cher courrier de campagne qui contient trois petites violettes d'Eisenach. N'est-ce pas l'adorable symbole de notre communauté de cœur?». A la veille de Noël, le 17 décembre 1914, nous trouvons cette première réflexion importante sur la mort, suite à la disparition de son jeune frère Otto: «Je pense que, réunis tous en cette veillée sacrée à Eisenach, vous lirez ma lettre. Pour nous tous, c'est un jour grave, difficile, mais qui reste beau tout de même. Comme moi, vous penserez à notre Petzlein (= Otto) et à toutes les touchantes transformations qu'a connues ce jeune être de vingt ans, vous penserez tantôt au bambin en tablier tantôt au jeune randonneur aux yeux graves, intelligents et bons, et il sera presque vivant au milieu de la pièce où vous célèbrerez la Noël. Mais ces souvenirs ne doivent pas nous affaiblir. Nous devons rester modestes et savoir que, nous les vivants, ne pourrons jamais voir, avec nos sens amoindris et malhabiles, la dernière et sans doute la plus belle des mutations de l'être aimé, mutation qui l'a arraché à notre cercle et l'a placé au-dessus de nous, sans pour autant mettre fin aux effets qu'il suscite encore en nous et par nous. Sans doute ceux que nous appelons les morts ressentent-ils l'état dans lequel nous nous trouvons, nous, les vivants, comme un état antérieur à la naissance et ils attendent que nous venions, après eux, à la vraie vie. La mort et la naissance ne me semblent pas être en opposition, mais sont comme des stades supérieur et inférieur dans le développement de la vie... Ceux qui sont tombés pour le soleil de leur terre et pour protéger la joie des générations futures ne veulent pas que nous les trahissions par des deuils qui ne sont indices que de nos faiblesses, des deuils qui ne pleurent que la part que nous aurions pu avoir dans les moissons de leur vie. Une douleur sans limite est si terne, si dépourvue de vie, alors que nos chers morts sont tombés pour que nous soyions forts en nos cœurs et en nos œuvres. Nous n'avons pas le droit de regarder l'éclat des bougies de Noël avec les yeux embués de larmes, parce qu'elles nous renvoient comme le reflet d'une âme aimée, lointaine mais tout de même si proche!...».

 

Au printemps de 1915, Walter Flex est envoyé au Warthelager (Le Camp de la Warthe), pour y subir une formation d'officier. C'est là qu'il rencontrera Ernst Wurche. L'été venu, le climat plus clément, Walter Flex écrit à ses parents, le 2 juin, cette lettre qui exprime la joie de la vie militaire en campagne sur le Front de l'Est, avec des mots d'une simplicité qui étonne, où l'éternité des choses de la nature semble primer par rapport au cataclysme guerrier qui embrase l'Europe d'Ouest en Est. Cette lettre du 2 juin 1915 est aussi la première qui fait mention de Wurche: «C'est en direction de cette languette de terre, à l'Ouest [du Lac Kolno], que j'ai commandé une patrouille il y a quelques jours; j'ai brisé la résistance d'un détachement russe de 23 hommes avec mes quatre gaillards; j'ai personnellement capturé un Yvan dans le marais; il nous a communiqué des renseignements intéressants. Le pistolet Mauser qui j'ai acheté avec notre chère maman m'a donc porté bonheur. Je me sens très heureux dans ma nouvelle position et, sans doute, ce moment est-il le plus heureux de ma vie. Cette nuit, j'ai occupé une nouvelle position avec mon peloton; elle doit encore être aménagée. Je viens d'instruire mon état-major de chefs de patrouille des plans de travail et j'ai réparti les postes. Dans mon dos, il y a un petit pavillon d'été non encore entièrement construit, que je pourrai sans doute occuper dès demain. Cette nuit, j'ai servi de pâture aux moustiques dans la forêt. Parmi mes hommes, il y a beaucoup de gars bien, utilisables, beaucoup sont de Rhénanie et, quand ils parlent, ils me rappellent Bonn et notre cher Petzlein. Mon ordonnance Hammer est lui aussi Rhénan, c'est un garçon jardinier fort habile qui aménage tout autour de moi avec grand soin et beaucoup de complaisance. Un jour, il m'a dressé une table de jardin sous de hauts sapins, et c'est là que je suis en ce moment et que je vois le soleil et les moustiques jouer au-dessus du marais et de la forêt...  Avec moi, il y a un Lieutenant issu de Rawitsch  —Wurche—  détaché par les “50” à la même compagnie, c'est un fameux gaillard, dont j'apprécie beaucoup la présence. Ne vous faites pas de souci pour moi. J'aime vous raconter des petites choses et d'autres sur mon vécu quotidien et je sais que je puis le faire sans vous inquiéter».

 

Le 24 août, Flex a le pénible devoir d'envoyer une lettre aux parents du Lieutenant Wurche, annonçant la mort de leur fils au combat. «Jamais je n'ai tant eu de peine à écrire une lettre mais j'ai demandé au chef de compagnie de votre cher fils de me permettre d'être le premier à vous écrire et à vous dire ce que Dieu vient d'infliger à votre famille. Car je voulais que l'annonce de la mort héroïque de votre garçon, si formidable, si bon, soit faite par un homme qui l'aimait. Depuis la mort de mon propre frère cadet, il y a presque un an, rien ne m'a touché aussi profondément que la mort de votre fils, mon excellent ami, de cet homme fidèle et droit, chaleureux et sensible à l'égard de tout ce qui est beau et profond. Mais permettez-moi de vous dire que, après sa mort, quand je me suis agenouillé pour prendre longuement, silencieusement, solitairement congé de lui, et que j'ai regardé son visage pur et fier, je n'ai eu qu'un seul souhait pour ses parents: s'ils pouvaient le voir couché comme je le vois, ils accepteraient plus sereinement leur douleur. En effet, leur fils Ernst avait toujours su susciter de la joie en mon cœur le plus profond parce que ses sentiments étaient toujours d'une exceptionnelle clarté, parce qu'il ignorait la peur qui tenaille si souvent les hommes et parce qu'il était toujours prêt en son âme à accepter tous les sacrifices que Dieu et sa patrie lui auraient demandés. Et le voilà étendu devant moi, il avait consenti au sacrifice suprême et ultime et sur ses traits jeunes, je lisais l'expression solenelle et formidable de cette sublime disposition d'âme, de ce don de soi, reposant dans la volonté de Dieu. Nous, votre cher fils et moi-même, nous nous trouvions la nuit dernière, chacun à la tête de nos services de garde respectifs, séparés par une distance d'environ trois kilomètres, sur les hauteurs bordant le lac, à Simno, à l'Ouest d'Olita. Soudain, le téléphone de campagne de la dixième compagnie, à laquelle il avait été très récemment affecté, m'apprend que le Lieutenant Wurche est tombé face à l'ennemi en effectuant sa patrouille. J'ai attendu, le cœur complètement déchiré, pendant toute cette longue nuit, parce que je ne pouvais pas abandonner mon poste, et, enfin, peu après quatre heures du matin, à bord d'une charrette russe, j'ai pu me rendre à Posiminicze, où il était basé en tant que responsable de la garde et où l'on avait ramené son corps. Une main devait l'amener au repos éternel, une main appartenant à quelqu'un qui l'aimait d'un amour fraternel, sans qu'il n'en soit sans doute entièrement conscient. C'est alors que je me suis trouvé devant lui, que j'ai vu la fierté tranquille et la paix dominicale de son visage pur et que j'ai eu honte de ma douleur et de mon déchirement.

 

Ernst était parti en patrouille pendant la nuit, pour aller voir à quelle distance s'étaient retirés les Russes qui fléchissaient et abandonnaient les positions qu'ils occupaient face à nous. Il a rampé seul, selon son habitude de chef de s'engager toujours en tête, il a avancé ainsi à 150 mètres devant ses hommes face à une position russe, dont ne ne savions pas si elle était encore occupée ou non. Une sentinelle ennemie l'a remarqué et a aussitôt fait feu sur lui. Une balle lui a traversé le corps, en lacérant plusieurs grosses veines, ce qui a provoqué la mort en peu de temps. Ses hommes l'ont ramené de la ligne de feu. Quand ils le portaient, l'un d'eux lui a demandé «Ça va ainsi, mon Lieutenant?». Il a encore pu répondre, calme comme toujours, «Bien, très bien». Il a alors perdu connaissance, et est mort sans souffrir.

 

Ce matin, je me suis hâté d'arriver à Posiminicze, afin de faire préparer sa tombe de héros, sous deux beaux tilleuls dressés devant une ferme lettone, se trouvant dans un petit bois à l'Ouest du Lac de Simno. Dans la tombe toute bordée de verdure, je l'ai fait descendre, portant tout son équipement d'officier, avec son casque et sa baïonnette; dans la main je lui ai glissé une grande tige de tournesol, avec trois belles fleurs dorées. Sur le petit monticule recouvert de gazon, se dressent une autre fleur de tournesol et une croix. Sur celle-ci figure l'inscription: “Lieutenant Wurche, R.I. 138, mort pour la patrie, le 23.8.1915”. Enfin, sur la croix, j'ai accroché une couronne tressée de cent fleurs aux couleurs éclatantes; pour la confectionner, ses hommes ont pillé tous les parterres des paysans lettons. Votre Ernst repose dans la plus belle tombe de soldat que je connaisse. Devant la tombe ouverte, j'ai récité un “Notre Père”, dont les paroles se sont noyées dans mes larmes, et j'ai jeté les trois premières poignées de terre sur lui, ensuite, ce fut le tour de sa fidèle ordonnance, puis de tous les autres. Ensuite, j'ai fait fermer et décorer la tombe, comme je vous l'ai décrite. J'ai demandé à un dessinateur, que j'ai fait venir de ma propre compagnie, de réaliser pendant la cérémonie un petit dessin du modeste tumulus sous lequel repose notre héros. Je vous le ferai parvenir dès qu'il sera possible de faire ce genre d'envoi, avec une esquisse en forme de carte indiquant le lieu, de même que ses objets de valeur. Je demande à notre compagnie de vous faire parvenir, à votre adresse, ses affaires personnelles. Je dois cependant vous dire que de tels envois venus du front demandent souvent beaucoup de temps. Mais vous recevrez assez vite le dessin de sa tombe, du moins si Dieu me laisse la vie. Comme l'ordre de marche vient d'arriver par le téléphone de campagne, je dois partir au galop jusqu'à mon poste de garde et m'élancer, à la tête de ma compagnie, à la poursuite de l'ennemi qui recule. Nous allons emprunter le chemin qu'il a découvert en fidèle éclaireur avec sa patrouille au sacrifice de sa vie. Maintenant, nous nous terrons dans une ferme que les Russes bombardent au shrapnel et nous attendons les ordres de la division. Je profite de ce bref répit qui me reste, pour vous écrire ce message de deuil sur ces fiches de rapport (c'est le seul papier que j'ai sur moi). Que Dieu donne à vos cœurs de parents une parcelle de la force et de la fierté de son âme héroïque! Croyez-moi, donnez-lui ce dernier témoignage d'amour, en acceptant sa mort comme il en a été digne, et comme il l'aurait souhaité! Que Dieu permette que ses frères et sœurs, à qui il vouait un grand amour fraternel, grandissent pareils à lui en fidélité, en bravoure, avec une âme aussi vaste et aussi profonde que la sienne! Avec mes sentiments les plus respectueux. Dr. Walter Flex, Lieutenant de réserve».

 

Dans une lettre à ses propres parents, le 29 août, il fait un récit plus concis de la mort de son camarade, mais exprime aussi d'autres sentiments, impossibles à dire au père et à la mère de Wurche, dans une première lettre de circonstance: «Wurche est mort. Il est tombé lors d'une reconnaissance audacieuse, en commandant un poste de garde à Posiminicze sur les rives du Lac Simno. Moi, j'étais de garde à Zajle  —à cinq kilomètres de là—  et j'ai appris la nouvelle par le téléphone de campagne et je n'ai pu me rendre auprès de lui que le matin, car je ne pouvais pas abandonner mon poste. A cinq heures, notre bataillon devait reprendre la marche et je n'ai donc eu qu'une heure et demie pour le voir une dernière fois et le faire enterrer. J'ai dû, revolver au poing, forcer un paysan à atteler un équipage et à me conduire à travers champs à P. J'ai enterré ce fidèle compagnon entre deux tilleuls et j'ai placé entre ses mains une fleur de tournesol aussi haute qu'un homme, avant qu'on ne le descende dans la tombe. Ses derniers mots, avant de partir pour son poste de garde, ont été: «Flex, revenez donc encore me voir à P.!». Je lui ai répondu que moi aussi j'étais de garde. Mais je suis tout de même retourné à P.! La mort de Wurche, je l'ai ressentie comme une deuxième mort de Petzlein, à qui il ressemblait beaucoup, par sa jeunesse, son idéalisme, sa pureté  —lui aussi était Wandervogel!—. Mais cette douleur-là élargit aussi les horizons du cœur, qui refuse désormais de s'imposer des exigences [individuelles] et bat désormais au même rythme que celui du peuple. Sa montre fonctionnait encore, quand je la lui ai enlevée. Je la prend souvent dans le creux de la main et je sens cette douce et lente pulsation de vie, que ses propres mains ont impulsée. Ne croyez pas que je sois triste, j'ai désappris la tristesse. A côté de la volonté et du don de soi, il n'y a plus de place pour ce sentiment-là...».

 

Dans une lettre du 4 novembre 1915, adressée à son père seul, le ton est plus philosophique, plus dur aussi, comme si Walter Flex tentait d'épargner à sa mère, qu'il adorait, des récits qui auraient pu accroître son chagrin et son inquiétude: «... Nous sommes tous devenus bien différents parce que nous avons vécu des moments que nul mot humain ne peut exprimer, nous sommes devenus plus riches, plus graves, et les souhaits que nous nous formulons dépassent le niveau purement personnel et se portent sur des choses qui se trouvent certes en nos propres cœurs mais s'élèvent quand même bien au-dessus de nous. Les désirs pressés, exprimant l'espoir de se revoir bientôt pendant assez longtemps, s'estompent pour faire place à des désirs tenaces, que nous cultivons en nous, auxquels nous préparons nos âmes, le désir d'arriver enfin à réaliser les objectifs que s'est donnée la patrie. C'est avec ce qui est arrivé ce matin que mon cœur s'est renforcé dans ce sens, avec beauté et gravité. Lors d'une patrouille, un homme de ma compagnie a reçu une balle dans l'articulation de la hanche, la blessure était très sérieuse. Avec quelques hommes munis d'une toile de tente, je suis sorti pour le ramener dans nos positions. Le pauvre gars était exposé aux vents du nord-est et à une neige mordante, complètement désemparé, et il perdait beaucoup de sang. Il appartenait à la réserve la plus récente qui était arrivée en septembre seulement. Je lui ai demandé: «Alors, mon garçon, vous souffrez beaucoup?» - «Non, mon Lieutenant!», soupira-t-il en serrant les dents, «mais... mais... cela me fait enrager que le gars d'en face m'ait eu ainsi!» - «Quoi!», lui répondis-je, «quand on a fait son devoir aussi bien que vous, on a le droit de passer quelques bonnes semaines dans un beau lit tout blanc à l'hôpital de campagne allemand» - «Mais mon Lieutenant», me répondit ce brave garçon en avalant sa colère et en se raidissant, «je ne suis au front que depuis quelques semaines et je dois déjà partir!». Il a haleté brièvement et s'est mis à pleurer de colère, et les larmes coulaient sur son visage sale. Croyez-moi, une telle attitude est rare malgré les idées reçues qui nous évoquent l'impavide héroïsme de la multitude. Mais rien que le fait que cela arrive tout de même, est une grande et belle chose, et ce courageux petit bonhomme mérite bien de s'en sortir... Nos hommes endurent des privations, des souffrances et des peines indescriptibles, mais seul a de la valeur et du poids ce qu'ils font et supportent volontairement, en faisant fièrement et en toute conscience le don de leurs propres personnes...».

 

En décembre 1915, Walter Flex écrit deux lettres qui précisent encore sa vision de la vie, comme “pont entre deux mondes”, thématique essentielle de Der Wanderer zwischen beiden Welten. La première de ces lettres date du 16 décembre, est adressée aux parents de Wurche et a été rédigée lors d'une permission à Eisenach: «... J'ai oublié de vous dire quelque chose. Votre Ernst avait souvent l'habitude de dire, quand nous parlions de nos soldats morts au combat: «La plus belle chose que l'on puisse dire sur la mort en héros, c'est ce qu'a dit un Pasteur quand son propre fils est tombé: «Quoi qu'il ait pu réaliser dans sa vie, il n'aurait jamais pu atteindre quelque chose d'aussi haut». Cette vision, si belle et si sublime, que cultivait votre cher fils, doit avoir le pouvoir de vous réconforter, vous aussi».

 

La seconde date du 25 décembre, est adressée à un ami et nous révèle les premières intentions de l'auteur, d'écrire le livre qui le rendra immortel: «Enfants, nous avions chacun une branche à nous sur l'arbre de Noël, où brûlait une bougie que nous réétoffions sans cesse jalousement à l'aide de la cire qui coulait, afin qu'elle soit la dernière à brûler. Hier soir, lorsque je regardais scintiller notre petit arbre russe dans mon abri souterrain gelé, chaque petite bougie semblait avoir un nom. J'étais aux côtés de beaucoup d'êtres que j'avais aimés, et quand la dernière bougie s'est éteinte, j'étais assis dans un cercle formé de beaucoup de morts. Petzlein était près de moi, ainsi qu'un ami, Ernst Wurche, que j'ai connu et perdu à la guerre et que j'ai enterré près de Posiminisze. Dans les moments où les morts sont si proches de moi, je me sens bien, et seule la compagnie des vivants m'apparaît étroite. Fidèle, tu m'écris si souvent; ne sois pas fâché si je t'écris plus rarement; je ne suis pas moins cordial à l'égard du seul vivant qui me reste. Mais la compagnie des morts fait que l'on devient plus tranquille et que l'on se contente de penser aux uns et aux autres. Les quelques mots que l'on jette sur le papier semblent si pauvres et si démunis à côtés des relations si vivantes que l'on peut entretenir dans nos rêves et nos souvenirs...  La plupart des gens ne valent pas grand'chose; si nos pensées s'occupent trop de cette multitude, ne fût-ce que par colère et par rejet, nos souvenirs ne sont plus qu'un fatras hétéroclite. Il ne faut pas que cela soit ainsi. Le divin est dans l'homme comme l'oiseau niche dans une haie d'épines, il ne faut qu'écouter son chant et ne pas regarder les épines. Les yeux, les oreilles et les lèvres doivent se fermer devant toutes les petites mesquineries, laideurs et misères, et l'âme toute entière doit se consacrer aux moments, aux choses et aux personnes qui nous révèlent le beau: voilà tout l'art de la vie. Ernst Wurche, que j'ai évoqué dans quelques-unes des lettres que je t'ai écrites, avait une manière si fine, si exemplaire, de passer à côté de toutes ces laideurs humaines, il en riait et récitait son petit vers de Goethe favori: “Voyageur, c'est contre cette misère-là que tu veux t'insurger? Tourbillon, étron séché, laisse le virevolter, se pulvériser!”. L'immense fatigue physique et nerveuse est passée, dès que nous avons repris la guerre de mouvement; je suis sur le point d'écrire mes souvenirs d'Ernst Wurche et toutes mes expériences de la guerre deviendront ainsi le vécu de cet homme tout de beauté et de richesse d'âme...».

 

A Mazuti, le 11 mars 1916, Walter Flex écrit à sa correspondante Fine Hüls, jeune femme du mouvement Wandervogel, une lettre dans laquelle sont précisées ses intentions de consacrer un livre à Ernst Wurche: «Je me suis mis depuis plusieurs semaines à un travail, auquel je consacre mes meilleurs instants et qui résumera mes souvenirs d'un ami tué au combat. Lui aussi était un Wandervogel et je puis dire déjà que mon travail fera ressortir de la manière la plus vivante qui soit l'esprit du Wandervogel, sublime et illuminant, tel qu'il m'est apparu chez ce garçon. Car c'est cet esprit-là dont l'Allemagne aura besoin dans l'avenir. Moi même, je n'ai jamais été Wandervogel, mais mon jeune frère l'était, et j'ai habité pendant de longs mois le même abri souterrain avec l'autre [Wandervogel que j'ai connu], le mort sur qui je vais écrire [mon livre]...».

 

Le 14 mars 1916, toujours à Mazuti, Walter Flex écrit à son frère et précise plus nettement encore ses intentions quant au livre qu'il prépare et rédige sur la figure sublime du Wandervogel  Ernst Wurche. Outre des réflexions philosophiques intenses, simples, essentielles pour entrevoir la première mouture de son ouvrage en gestation, la lettre révèle qu'il a toujours caché à ses parents, et surtout à sa mère, les vraies horreurs du quotidien de la guerre, horreurs qu'il accepte avec un remarquable et admirable stoïcisme, parce, comme toute souffrance, ou toute maladie, elle construit la personnalité: «...Plus cette guerre durera, plus elle prendra des formes destructrices, et il serait effronté de calculer et de songer à mener sa petite mission dans ce grand jeu, tout en espérant échapper à la mort. En disant cela, je ne cherche pas à te faire peur  —bien sûr, ne montre pas cette lettre à nos parents—  mais je veux tout simplement te signaler des évidences que tout officier d'infanterie te confirmera et qui, personnellement, ne m'inquiètent pas le moins du monde, sauf quand je pense à notre maison. Mon grand ami Ernst Wurche m'a un jour dit à peu près ce qui suit: «Si [nous savons que] le sens et le but de la vie humaine sont de parvenir au-delà de la forme humaine, alors nous avons déjà accompli notre part dans le [grand processus] de la Vie, et quelle que soit la fin qui nous advienne aujourd'hui ou demain, nous savons davantage que le centenaire ou le sage. Personne n'a jamais vu tomber autant de masques, de coquilles vides, vu autant de bassesse, de lâcheté, de faiblesse, d'égoïsme, de vanité, vu autant de dignité et de noblesse d'âme silencieuse que nous. Nous n'avons plus grand'chose à exiger de la vie: elle nous a davantage révélé qu'à d'autres, et au-delà de cela il n'y a pas d'exigence humaine [à formuler]; attendons calmement, ce que la vie va nous demander. Si elle nous demande tout, alors qu'elle nous a tout de même déjà tout donné, les factures s'équilibrent». Ces paroles proviennent de la dernière conversation tranquille que j'ai eue avec Wurche; elles ne me quittent plus, elles sont si vraies, un profane resté en dehors de cette guerre peut à peine les comprendre et les sentir, mais ce n'est pas une phrase creuse que je t'écris quand je te dis qu'en ce qui concerne ma personne, je suis totalement serein. Mais peut-être qu'une tâche t'attend, surtout à l'égard de maman, dont je ne peux guère mesurer l'ampleur. Nous devons être capables de parler de cela en adultes et en toute sérénité, sans nous émouvoir. Je pense que tu dois te préparer et t'armer à l'avance pour affronter cette tâche, si elle t'échoit. Savoir comment tu la mèneras à bien, est ton affaire...».

 

Sa philosophie éthique se précise encore plus nettement dans une lettre du 28 avril 1917 à Fine Hüls: «Je me suis porté volontaire avec quelques camarades, parmi lesquels un vieux major, un type formidable, pour le front de l'Ouest. C'est pénible quand je pense à ma mère qui ne le sait pas encore. Pour le reste, vous connaissez ma pensée. Il ne suffit pas de poser des exigences d'ordre éthique, il faut les accomplir, pour leur donner vie. Goût de l'aventure et idéalisme ont souvent été confondus au début de cette guerre, et l'idéalisme inflexible, refusant toute concession, où seul compte le salut présent et futur de notre peuple, est devenu rare... Vous m'écrivez: «Toutes sortes de soucis me troublent l'âme, quand je pense à vous». Très chère madame, il n'y a aucune raison de se soucier. Ce souci ne serait fondé que si j'avais enfreint, en renonçant à mon engagement, le principe de cette unité d'action et de pensée, pour des raisons de cœur. En mon fors intérieur, je suis tout autant volontaire de guerre qu'au premier jour. Je ne le suis pas et je ne l'étais pas, comme beaucoup le croient, par fanatisme nationaliste, mais par fanatisme éthique. Ce sont des exigences éthiques, et non pas des exigences nationales, que je mets en avant et que je défends. Ce que j'ai écrit sur l'«éternité du peuple allemand» et sur la mission rédemptrice de la Germanité dans et pour le monde, n'a rien à voir avec l'égoïsme national, mais relève d'une foi éthique, qui pourra même se réaliser dans la défaite ou, comme Ernst Wurche l'aurait dit, dans la mort héroïque au combat de tout un peuple. Je n'ai jamais été le poète du parti pangermaniste, comme on le croit un peu partout, et j'avoue que ma pensée politique n'est pas trop claire, qu'elle n'a jamais hésité ni réfléchi outre mesure sur les nécessités de la politique intérieure et extérieure. Je m'en suis toujours tenu à une pensée claire et limitée: je crois, en effet, que l'évolution de l'humanité a atteint sa forme la plus parfaite, pour l'individu comme pour son évolution intérieure, dans le peuple, et que le patriotisme pan-humanitaire représente une dissolution, qui libère une nouvelle fois l'égoïsme personnel, normalement bridé par l'amour porté au peuple, et fait revenir l'humanité entière à l'égoïsme dans sa forme la plus crue... Voici ce que je crois: l'esprit allemand en août 1914, et après, a atteint un degré d'élévation inouï, comme chez aucun peuple auparavant. Heureux celui qui a pu atteindre ce sommet et n'a plus eu besoin d'en redescendre. Les descendants de notre peuple et des autres peuples verront la trace de ce déluge voulu par Dieu, au-dessus d'eux, le long des rives vers lesquelles ils s'avanceront. Voilà donc ce que je crois, voilà ma fierté et ma joie, qui m'arrachent à tous les soucis personnels».

 

A partir de mars 1915, Flex a donc servi continuellement sur le front russe, avec un repos de quelques mois au ministère de la guerre en 1917, où il participera à la rédaction d'une histoire officielle de la guerre en cours. Il a toujours refusé les nominations au département de la presse, qu'on lui a souvent proposées, préférant servir au feu. C'est à la fin de 1916 que paraît Der Wanderer zwischen beiden Welten, chez Beck. En deux ans, 250.000 exemplaires seront vendus (en 1940, le chiffre sera de 682.000 exemplaires). Walter Flex a donc eu le bonheur de connaître le succès de son livre et la joie de recevoir un courrier très abondant de soldats et d'officiers du front, qui lui disaient avoir trouvé dans ce texte consolation, force et sérénité. En décembre 1916, Walter Flex part en permission à Eisenach chez ses parents, avec, dans son sac, une nouvelle pièce de théâtre, Die schwimmende Insel  (L'Ile flottante), à thématique mythologique. Elle sera jouée peu avant Noël au théâtre de la ville. Mais cette version originale n'est demeurée qu'un premier jet et n'a jamais été retravaillée. Walter Flex se jette alors corps et âme dans la rédaction d'un nouvel ouvrage, Wolf Eschenlohr,  qui restera à l'état de fragment. Il se porte volontaire pour le Front de l'Ouest, mais sa demande est rejetée. Il continuera donc le combat contre les Russes, avec un répit à l'état-major à Berlin, où on lui demande de rédiger un rapport précis sur l'offensive russe du printemps 1916 («Die russische Frühjahrsoffensive 1916»), qui figurera dans un ouvrage collectif édité par l'armée et paraîtra aussi sous forme de livre après sa mort. A Berlin, il fait la connaissance d'une jeune femme du Wandervogel,  Fine Hüls, à qui il enverra des lettres poignantes, révélant clairement ses positions. Fine Hüls était une collaboratrice de la Tägliche Rundschau, et avait fait mettre en musique certains poèmes de Walter Flex pour les cercles berlinois du Wandervogel.  Le 6 juillet 1917, il reçoit la Croix de Fer de première classe. Fin août 1917, il rejoint son Régiment dans le “Baltikum”. Il participe au franchissement de la Duna et à la prise de Riga. Ensuite, sa compagnie est envoyée sur l'île d'Oesel, face aux côtes lettones et estoniennes. Mais l'obsession de la mort demeure, malgré cette progression fulgurante des armées du Kaiser qui contraste avec le piétinement à l'Ouest. Il écrit à Fine Hüls: « De tous mes camarades qui sont partis à l'Ouest il y a quelques mois, un seul est encore en vie. Parmi eux, il y avait quelques hommes formidables, avec qui j'aurais aimé partir. Je les revois encore dans la gare, qui me font signe du train qui partait. «Dommage que vous ne puissiez venir avec nous!», me criait Erichson, un Mecklembourgeois, qui formait avec Wurche et moi un trio de chefs de peloton de la 9ième Compagnie devant Augustov[o]. Maintenant il est enterré en face de Verdun. S'il avait su que nous aurions pris Tarnopol et Riga peu après, il serait sûrement resté avec nous. Où serais-je si mon engagement de l'époque n'avait pas été refusé? Est le hasard ou le destin? Je suis toujours reconnaissant de conserver cette égalité d'âme, qui n'a jamais été sérieusement ébranlée. Non pas que j'aie le sentiment d'être différent des autres ou supérieurs à eux, mais j'ai la conviction tranquille et intérieure que tout ce qui peut m'arriver est une parcelle de l'évolution de la vie, sur laquelle la mort n'a nulle emprise...».

 

Le 15 octobre 1917, le jour où cette lettre arrive à Berlin, une balle mortelle atteint Walter Flex sur l'île d'Oesel. Plusieurs lettres existent, qui témoignent de sa mort, ainsi qu'un rapport rédigé par la Général von Hutier, commandeur du Régiment. Voici comment Konrad Flex résume l'ensemble de ces récits et rapports dans son introduction aux œuvres complètes de son frère: «Dans la cour du domaine de Peudehof, près du village de Leval, s'était retranché un fort parti de Russes avec leurs chariots à bagages. Le représentant du corps des officiers, Weschkalnitz, est allé de l'avant et a demandé aux Russes de se rendre. Un officier russe lui a mis la main sur l'épaule et lui a dit: «Non, vous êtes mon prisonnier». Weschkalnitz a fait un bond en arrière et a cherché à s'abriter derrière un rocher, tandis que les Russes ouvraient le feu sur lui. C'est alors que Flex a sauté sur un cheval cosaque qui n'était plus monté, a sorti son épée du fourreau et s'est élancé vers l'ennemi. W. lui a crié: «Mon Lieutenant, ils ne veulent pas se rendre!». Au même moment, plusieurs balles ont été tirées. L'une d'elles a sectionné l'index de la main droite du cavalier qui avançait et puis s'est logée dans le corps. Walter Flex est tombé de cheval et a crié à W., qu'il devait prendre le commandement de la compagnie. Un homme du Landsturm allemand (= équivalent de la Territoriale française) s'est élancé furieux, pour massacrer à coups de crosse le tireur russe, mais mon frère lui a dit: «Laisse-le, lui aussi n'a fait que son devoir». Immédiatement, les Russes ont abandonné le combat et déposé les armes. Le blessé a été amené par ses hommes dans une petite maison le long d'un chemin, où un sous-officier du service sanitaire lui a prodigué les premiers soins. Sa première question a été de s'enquérir de la situation à la suite de cet engagement. La réponse l'a satisfait et il s'est affaissé. Dans le château du domaine de Peudehof, les Russes avaient installé un hôpital de campagne, qui venait de tomber aux mains des Allemands. Le blessé y a été transporté sur un chariot et pansé par les médecins russes. Peu après, un médecin militaire allemand est arrivé à son chevet, après s'être concerté avec ses collègues russes, il a jugé qu'une opération était exclue, car le blessé avait perdu trop de sang et était trop affaibli. La balle avait traversé le ventre et manifestement touché des organes vitaux. A Zimmer, sa fidèle ordonnance, mon frère a dicté la carte suivante: «Chers parents, j'ai dicté cette carte, parce que je suis légèrement blessé à l'index de la main droite. Autrement tout va très bien. Ne vous faites aucun souci. Salutations chaleureuses. Votre Walter». Lorsque Zimmer lui a demandé s'il devait écrire comme mon frère avait l'habitude de le faire «A Monsieur le professeur et Madame Flex», il a dit en souriant: «Non, Zimmer, n'écrivez cette fois que “Professeur Flex”, pour que ma mère ne soit pas effrayée». Pendant la nuit, Zimmer est venu plusieurs fois au chevet de son Lieutenant et l'a toujours trouvé apaisé, les yeux fermés. Lorsqu'il lui a demandé s'il avait mal, Walter Flex a répondu par la négative, mais lui a parlé de difficultés au niveau du cœur. Le matin du jour suivant, il a reçu la visite du Pasteur de la Division, von Lutzki, qui, à sa grande joie, lui a apporté le salut du Régiment. Comme le blessé était fort affaibli, von Lutzki n'a pu rester que quelques instants. Il a demandé s'il devait saluer le Régiment pour lui, et mon frère a répondu: «Bien sûr que oui! Excusez-moi de ne pas vous le dire moi-même, mais avec tout ça, je me sens tout de même un peu perturbé». Le Pasteur von Lutzki voulait revenir l'après-midi. Lorsque mon frère, pour prendre congé de lui, a lancé un «Au revoir», il a remarqué un geste chez le prêtre et a ajouté sur un ton mi-plaisant mi-interrogateur: «Quoi qu'il en soit, nous nous reverrons tout de même, n'est-ce pas?». Son état de faiblesse s'est alors rapidement amplifié. Beaucoup voulaient rendre une visite au blessé, mais personne n'y a été autorisé. Walter Flex est mort au début de l'après-midi du 16 octobre. Le jour de sa mort correspondait au jour de l'anniversaire de son frère Otto, qui l'avait précédé dans la mort du soldat. Le corps de Walter a été ensuite amené dans un petit pavillon du parc. Normalement, le régiment entier aurait dû prendre part aux obsèques, mais, le soir même, il a reçu l'ordre d'aller de l'avant. Ainsi, seuls neuf hommes de sa chère compagnie ont pu rester, pour lui faire une dernière escorte, accompagnés par quelques médecins militaires allemands. L'enterrement a eu lieu dans le cimetière du village de Peude, à dix minutes de là. Sa tombe se trouve juste en face du caveau de la famille von Aderkas, à qui appartenait le domaine avant qu'il ne soit exproprié. Il y a quelques semaines, je me suis rendu à Peude. La croix de bois, érigée par nos soldats, s'est décomposée depuis et a été remplacée par une autre, payée par des fonds récoltés dans les cercles baltes. Sur un petit socle de granit, se dresse, fine et élégante, une croix de fer forgé peinte en blanc, pourvue d'une plaque de laiton portant le nom et les dates de naissance et de décès du défunt. Cette croix est provisoire, mais elle a été dressée par des cœurs fidèles et des bonnes volontés. C'est une croix de soldat comme des milliers d'autres et je l'aime telle qu'elle est, comme je l'ai vue pour la première fois ce jour-là, tôt dans la matinée. C'est pourquoi je pense qu'elle peut rester quelque temps, jusqu'à ce qu'elle se décompose à son tour et qu'elle soit remplacée par une pierre tombale définitive. Le cimetière de Peude est tout encombré de gros arbres, un peu négligé, ce qui le rend d'autant plus pittoresque».

 

Au moment de sa mort, paraît un recueil de poèmes sur ses expériences de guerre, Im Felde zwischen Nacht und Tag, qui, la même année a connu vingt-et-une éditions. Walter Flex a pu lire et corriger les épreuves mais n'a jamais vu son livre. Les droits d'auteur devaient revenir à une fondation créée en faveur des orphelins de guerre.

 

Sa nouvelle de guerre, Wolf Eschenlohr, est restée inachevée. Le 23 août 1917, il avait envoyé le premier chapitre à son éditeur. Le manuscrit du second se trouvait dans un porte-cartes, qu'il a eu le temps de remettre à son ordonnance, en lui demandant d'y veiller tout particulièrement. Zimmer expédia tout à la famille. Ce manuscrit, un cahier noir et d'autres papiers ont été transpercés par la balle fatale. Konrad Flex écrit: «Le livre aurait dû décrire les expériences de guerre du poète, les expériences extérieures et intérieures, dans une intrigue purement fictive. L'auteur voulait prendre position face aux nombreuses questions, notamment de natures religieuse et éthique, que la guerre avait éveillées en lui. Il voulait aussi y traiter de la question sociale et de l'opposition entre les classes (...)».

 

Le noyau de la vision poétique de Flex, qui est aussi une vision de l'homme et de la mission qu'il a à accomplir sur la Terre, constitue une réflexion intense, soumise constamment au contrôle du vécu, sur le rapport entre l'individu et la société (ou la communauté; le poète Flex n'opère pas de distinction entre les deux concepts comme les sociologues). Dans ses pièces de théâtre, le social est la condition existentielle qui permettra à l'individu de vivre en adéquation avec ses propres canons éthiques. L'individu qui croit pouvoir s'élever au-dessus des conditions sociales, qui croit détenir un savoir supérieur ou mener seul une mission sublime, d'essence métaphysique ou divine, ou qui s'isole en déployant seul une éthique pure de tout contact avec le réel, est irrémédiablement condamné à l'échec.

 

Libre de tout engagement politique, Walter Flex n'introduit aucun ferment idéologique dans sa poésie, ses drames et sa prose. De même, jamais, ni dans ses poèmes ni dans ses récits ni dans ses fictions ni dans les lettres qu'il adressait à ses parents, ses frères et ses amis, il n'écrit un seul mot désobligeant envers l'ennemi français ou russe. Pour lui, le peuple (Volk) est mis en équation avec l'ethos: car ce Volk est le cadre spatio-temporel où, lui, Allemand, où l'autre, Russe ou Français, doit stoïquement, sans fléchir, incarner l'éthique du service à la communauté, devant les tourments et les souffrances de la guerre, qui est la tragédie portée au pinacle, l'örlog  de l'Edda, le chaos déchaîné qui reste finalement le fond-de-monde auquel nous sommes livrés, de par notre conditio humana. On est sur Terre pour servir et pour souffrir, non pour recevoir ou pour jouir. Ainsi, Walter Flex touche à l'essentiel et garde un cœur pur, limpide: des souffrances qu'il endure, avec ses millions de camarades du front, il n'attend aucune récompense, aucune promotion, ni même aucune victoire. La guerre est l'occasion, pour lui, de vivre pleinement la condition humaine.

 

Der Wanderer zwischen beiden Welten est un monument à son ami Ernst Wurche, un jeune officier issu des Wandervögel, le mouvement de jeunesse idéaliste né sous l'impulsion de Karl Fischer, à Steglitz, dans la banlieue de Berlin en 1896. Wurche avait étudié la théologie, participé à ce mouvement de jeunesse en quête du “Graal” au moment où la société se vidait de toute éthique sous les coups de l'industrialisme, de la consommation, de la publicité, des plaisirs frivoles et commercialisables. Wurche incarnait l'intégrité, la pureté des idéaux, une grâce forte et virile, une dignité sereine, la Gelassenheit:  bref, toutes les qualités du mouvement Wandervogel.  Si Flex, plus âgé que Wurche, hérite encore de l'ancienne notion prussienne du service, plus âpre, plus militaire, plus politique, plus ancrée dans une histoire institutionnelle précise, le jeune officier issu des Wandervögel, développe un idéalisme au-delà de ces circonstances historiques spécifiquement prussiennes, donc un idéalisme plus pur, visant, en fait, à dompter les tensions et les contradictions multiples qui traversaient la nation allemande. Les clivages entre confessions religieuses et idéologies politiques, entre intérêts divergents et opposés, doivent disparaître au profit d'une synthèse nouvelle, qui ne sera pas bruyamment nationaliste, mais rigoureusement et sereinement éthique. La germanité nouvelle, rêvée autour des feux de camp du Wandervogel  puis des bivouacs de l'armée impériale en campagne, serait une synthèse entre la foi du Christ, la sagesse vitaliste de Goethe et l'idéal de la surhumanité nietzschéenne. Cet homme nouveau, ce nouveau Germain stoïque et serein, calme et maître de soi, devra avoir le sens du sacrifice suprême, sans poses et sans coups de gueule. Son sacrifice, sa mort au combat, comme celle de Wurche qui, en ce sens, est exemplaire, n'est pas une perte irréparable, ne réclame pas vengeance: elle est une consécration religieuse, un accès au sacré. Comme la Passion du Christ. Dans cette perspective qui reste absolument chrétienne, et plutôt de facture évangélique-luthérienne, Flex écrit, dans Nachtgedanken:  «La guerre est l'un des dévoilements les plus sacrés et les plus importants, par lequel Dieu répand de la lumière dans notre vie. La mort et le sacrifice des meilleurs de notre peuple ne sont qu'une répétition, voulue par Dieu, du miracle le plus profond de la vie qu'ait jamais connu la Terre, c'est-à-dire de la souffrance vicariale de Jésus Christ».

 

De cette vision de la vie et de la mort, de la souffrance et du don de soi, doit découler une pédagogie nationale, dont le dessein premier est d'insuffler une vigueur morale de telle ampleur, que le peuple qui la pratique échappe à la mort. La véritable vie du moi se situe dans le don au toi. Il y a dès lors primauté de l'éthique sur le national et sur le social (qui offrent chacun un contenant à la pratique de l'éthique). Le social n'est rien en soi mais est tout pour l'individu, parce qu'il lui présente toutes les facettes de ce Protée qu'est le toi, et lui offre donc la possibilité d'être altruiste. Dès les dernières années de son Gymnasium, Walter Flex a élaboré sa philosophie du service et de l'altruisme, où se mêlent, dans une synthèse sans doute assez maladroite, le vieil idéal prussien du service et une sorte de social-darwinisme coopératif; jeune lycéen il écrit: «J'ai trouvé l'ancienne montagne magnétique, vers laquelle convergent tous les efforts humains: c'est le groupe, la patrie». C'est la vie en groupe qui donne son sens à l'individu: «La volonté vise un but, et ce but, c'est la durée. Or le moi n'a pas de durée. La durée, c'est la famille, c'est la patrie».  Mais l'égoïsme est une force indéniable parmi les multiples mobiles humains. L'individu, par le truchement des institutions nationales, du cadre nationalitaire, du Volk  organisé en Etat, sublime ses pulsions égoïstes naturelles et les hisse à un niveau plus élevé, celui du service à la collectivité. Cette vision éthique et politique peut être considérée comme l'expression simplifiée d'un hégélianisme nationaliste, encore fort teinté des premiers écrits romantiques de Hegel, avant qu'il ne s'insurge contre les simplismes des “teutomanes”. Le Volk  est, dans cette optique, le fondement à partir duquel se déploie une éthique, une morale, une Sittlichkeit  unique, non interchangeable, non transmissible à d'autres Völker.  Par le truchement du droit, des institutions politiques et de l'Etat, cette Sittlichkeit  peut s'ancrer dans les esprits et créer de véritables “organismes politiques”, lesquels postulent qu'il y ait identité entre les gouvernants et les gouvernés, que les uns commes les autres participent de la même Sittlichkeit,  dérivée du même humus, c'est-à-dire de la même substance populaire, du même Volk.  La Sittlichkeit  politique de facture hégélo-nationale s'oppose ainsi, comme le constate le philosophe italien Domenico Losurdo à la suite d'une enquête minutieuse, au strict individualisme kantien et aux sentimentalismes irrationalistes et mystiques, qualifiés de “criticismes stériles”. La Sittlichkeit  n'a rien à voir avec la Schwärmerei  (= l'enthousiasme) romantique, refuse les “évasions consolatrices”. Elle se déploie dans un cadre politique, dans un cadre national, dans une éthique du service, au-delà des intérêts personnels et des idéologies qui leur servent de justifications. Si Flex n'a jamais rien écrit de systématique sur ses options politiques, il est évident qu'il a vécu tout compénétré de cet hégélianisme implicite du monde protestant allemand.

 

Walter Flex propose ainsi un idéal de l'accomplissement de soi par la négation de soi, un dépassement de l'égoïsme personnel. Notre vie sur terre ne constitue nullement un but en soi, mais n'est seulement qu'une parcelle infime de notre être éternel, qui nous pousse graduellement, par la lente action du temps, vers le divin. Les souffrances que nous affrontons, et que les soldats de la première guerre mondiale affrontent, rendent les forts plus forts et les faibles plus faibles. En ce sens, la guerre est révélatrice: elle montre les créatures de Dieu telles qu'elles sont vraiment, sans fard, sans masque.

 

La germaniste Irmela von der Lühe écrit, dans une étude consacrée à Flex: «Les valeurs spirituelles, vis-à-vis desquelles il se sent obligé et responsable, sont simples et droites. L'étudiant en théologie Ernst Wurche lit Goethe et, dans les tranchées, il apprend encore des poèmes par cœur, il lit aussi les aphorismes poético-philosophiques du Zarathoustra de Nietzsche, trimbale ce livre partout avec lui, et il ne cesse d'en citer des passages ainsi que de l'édition de campagne du Nouveau Testament. Ce qu'il cite (...) il le cite sans crispation intellectuelle. La beauté de l'art, l'idéal du combat pour le bien et contre le mal, et la prière comme requête pour obtenir la force et la bravoure du soldat: voilà les valeurs qui remplissent la bibliothèque du soldat Ernst Wurche. Y transparaît surtout son christianisme guerrier. Le Dieu d'Ernst Wurche est un ennemi des faibles, il porte lui aussi l'épée, qui brille pure et claire dans le soleil...».

 

Symbole de l'homme parfait, de cet homme nouveau que doit imposer la pédagogie populaire et nationale souhaitée par Walter Flex (et par Fine Hüls dans ses écrits d'hommage au poète dans la presse du Wandervogel, après la guerre), Ernst Wurche traverse deux mondes, le monde terrestre et le monde du divin, qui fusionnent dans l'intensité brève et incandescente de l'assaut ou dans la mort héroïque. En France, Pierre Drieu La Rochelle écrira des pages aussi sublimes sur l'assaut dans La comédie de Charleroi.

 

Dans les poésies de Flex  —et dans sa philosophie implicite de la vie que l'on rencontre très souvent dans sa prose—,  se dégage une sorte de proximité avec la nature, de volonté de fusion avec la cosmicité, proche à maints égards des pensées asiatiques. Observateur français critique, proche de l'Action Française, Maurice Muret, écrit dans La Revue universelle,  en août 1921, que l'anti-asiatisme bruyant  —violent et très agressif lors de la Guerre des Boxers—  de Guillaume II, vitupérant sans discontinuité contre le “péril jaune”, a fait place à une “asiatomanie” anti-occidentale parce qu'anti-rationaliste et, partant, anti-française et anti-anglaise. Le néo-orientalisme allemand est, aux yeux des critiques germanophobes et antisémites français, dont Muret, une sorte de néo-rousseauisme, véhiculé par les cercles et les publications de la Freideutsche Jugend  et par des philosophes comme Rudolf Pannwitz (très critique à l'égard des formes militaristes du nationalisme et de l'impérialisme allemands) ou Martin Buber (traducteur des Discours et similitudes  du sage taoïste chinois Tchouangtsé). Muret insiste également, pour appuyer sa thèse de l'“asiatisme” des Allemands, sur le succès que connaissait, dans l'Allemagne vaincue, l'auteur indien Rabindranath Tagore, qui condamnait l'Angleterre, se montrait indulgent pour le Reich battu et définissait les nations occidentales comme celles de l'“égoïsme organisé” où triomphait la “mécanisation sans idéal”. Tagore, avec le langage des traditions védique et bouddhique pluri-millénaires, tentait de prouver que le bouddhisme ne prêchait nullement l'anéantissement de soi-même, mais l'éternisation de soi-même, non seulement par l'abolition de la personnalité mais aussi et surtout par son ascension dans le spirituel. Ce sera Henri Massis, dans un texte célèbre de 1925, Défense de l'Occident,  qui donnera une forme et un argumentaire définitif à cette critique occidentale de l'asiatisme de la pensée allemande. On peut tracer à l'évidence un parallèle avec Flex, même si celui-ci n'a aucune référence orientale. Sans oublier de dire quand on aborde ce contexte, que cette “asiatomanie” que Muret et les germanophobes antisémites de la place de Paris dans les années 20 attribuent à un ressentiment allemand devant la défaite et le Traité de Versailles, est en fait beaucoup plus ancienne et remonte à Schopenhauer.

 

Celui-ci avait annoncé la fin de l'euro-centrisme en philosophie et un retour à la philosophie indienne. Cette reconnaissance de la pertinence des philosophies extra-européennes ne s'accompagne pourtant pas, chez Schopenhauer, d'une fébrilité de converti, d'une “désertion de l'Europe”. En réhabilitant la pensée indienne, Schopenhauer et ses émules parmi les philosophes allemands du début du siècle réintroduisent dans le discours philosophique des linéaments aussi importants que l'idée du malheur structurel et incontournable, inhérent à la vie humaine et animale, l'égalité en rang du règne animal et humain, un principe de réalité non intellectuel, etc. Car, dans cette perspective, l'unité fondamentale de toute chose et de toute vie ne peut se saisir que par une mystique. La mystique, en effet, saisit la réalité au-delà de tout disible et de tout pensable. C'est la réalité d'avant le langage (donc d'avant tous les travestissements, les calculs anthropocentriques, les dérivatifs qu'il induit), la réalité non cognitive, laquelle se borne à “se montrer”, se dévoiler. Le langage et les concepts abstraits, tout comme les conventions sociales dénoncées par le Wandervogel  ou les idéologies des groupes politiques conventionnels de droite et de gauche, masquent le réel, masquent la prolixité féconde et ubiquitaire de l'indicible et de l'impensable, de l'incommensurable.

 

Flex opte, dans le contexte de cette postérité schopenhauerienne où il est finalement inconscient de l'héritage de Schopenhauer, pour une contemplation de la nature, source d'inspiration spirituelle du poète. En effet, toute son œuvre poétique est imprégnée de notations révélatrices du sentiment d'intime participation à l'organicité du monde. Au-delà des raisons “hégéliennes” que nous évoquons par ailleurs, au-delà des héritages luthériens de sa famille, Flex fait usage d'une terminologie extra-philosophique, faisant implicitement et inconsciemment référence à un “socle” préexistant à tout concept abstrait, à toute religiosité plaquée sur le tronc germanique et européen, c'est-à-dire, schopenhaueriennement parlant, à cette réalité d'avant le langage, d'avant tout disible et tout pensable... Le reconnaissance, tout naturelle, parfois joyeuse et confiante, acceptante, de ce socle est la nouveauté religieuse et métaphysique apportée par l'homo novus  germanique, à la fois “goethéen, chrétien et nietzschéen”, en guerre contre le “vieux monde” occidental. Ce naturalisme spiritualisé ou cette spiritualité naturelle justifient l'engagement allemand dans le premier conflit mondial. L'homo novus, assez proche de l'“ange” de Rilke, n'apporte pas aux hommes, humains trop humains, une idéologie rationnellement construite ou des principes intangibles  ou des concepts juridiques ou des préceptes moraux qu'il s'agit de défendre comme les fondements immuables,  —soustraits à toutes les vicissitudes de la vie—,  d'une civilisation avancée sur la ligne du “progrès” mais appelle à préserver une certaine forme d'être contre cette modernité mercantile et ce matérialisme démocratique défendus par l'Entente. Cette forme d'être, c'est finalement l'homme pleinement relié au cosmos.

 

De Schopenhauer à Keyserling puis à Hauer, la pensée allemande a effectivement redécouvert l'hindouisme et le bouddhisme. Elle y voit une forme particulière de la sensibilité indo-européenne, orientale certes, mais préservée finalement de l'influence chrétienne. La rencontre est d'autant plus profondément ressentie qu'elle croise et confirme l'intuition romantique qui ne cesse de se développer depuis la fin du XVIIIième contre l'esprit des Lumières.

 

Les poèmes de Flex rendent compte de cette rupture. Les invocations au soleil de gloire, aux corps libres, au sang lumineux, à la terre fraîche, aux forêts du Septentrion, parlent avec émotion de la fusion sensuelle au mystère du monde. Le choix du Pélerin-migrateur, dans le titre, associé à l'Oie Sauvage, comme leitmotiv, renvoie à un folklore dont l'origine, en Europe du Nord, se perd dans la nuit des temps: «Symbole d'une très ancienne sagesse, la messagère qui unit le ciel et la terre [...], l'oie ou le cygne sauvage, qui parcourent le continent d'un bout à l'autre, symbolisent l'âme transmigrant de vie en vie [...], spirale mystique symbolisant la difficile pérégrination de l'âme vers le centre, le sanctuaire intérieur et caché, où elle rencontrera son Etre essentiel, la permanence de son impermanence, ce qui [...] ressemble à l'itinéraire intérieur accompli en zazen»  (Jacques Brosse, Zen et Occident,  Albin Michel, Paris, 1992).

 

Dans les poèmes de Flex, on ne compte plus les allusions aux tournesols, aux fleurs de soleil associées à l'éclat de l'or apollinien:

“Es deckt des Sonnenjünglings Brust

Als Sonnenwappen des Blütenbrust

Der gold'nen Blumenlanze”.

[Il couvre la poitrine de cet homme jeune et solaire, comme des armoiries solaires orneraient un buste en pleine croissance, comme une lance de fleurs toute dorée...].

Image du porteur de lumière:

“Als Fackel trägt er in weißer Hand

Eine goldene Sonnenblume”.

[Dans sa main blanche, il porte comme un flambeau un fleur de tournesol dorée].

Ou encore:

“Glüh', Sonne, Sonne glühe!

Die Welt braucht soviel Glanz!”.

[Resplendis, ô Soleil, ô Soleil, resplendis!

Le monde a bien besoin d'autant d'éclat!].

 

La mort elle-même devient expérience vivante, rupture sans abandon, intensification du lien spirituel et attachement charnel à la glèbe habitée. L'évocation du coup sur la nuque lors du rappel intense de l'absent correspond précisément à l'expérience décrite par Carlos Castañeda lors de circonstances similaires. L'énigme du monde n'est plus simple champ de spéculations dialectiques (de l'aristotélo-thomisme au pur formalisme teinté d'hégélianisme) mais domaine de réalisation tangible de sa propre nature (le gnothi seauton  apollinien). Soit un recours à l'extra-philosophique, comme le réclamait Schopenhauer dans un certain désordre et une certaine confusion, mais en demeurant au niveau du sublime.  Nous touchons là à la Voie du Guerrier telle que l'a pratiquée aussi bien l'Inde que le Japon ou l'Amérique précolombienne (cf. Bernard Dubant, La Voie du Guerrier,  Ed. de la Maisnie, Paris, 1981).

 

Autre signe: le culte de l'épée.

“Das Schwert, so oft beschaut mit Lust

Glüht still in eig'nem Glanze”.

[L'épée, si souvent contemplée avec désir, repose, tranquille, dans son propre éclat].

On songe à la réponse du chef alain auquel un prélat chrétien, à l'époque de la grande migration des peuples, consécutive à l'assaut des Huns et l'effondrement des structures romaines, demandait quel était son dieu, l'Alain planta son épée dans une motte: «Voilà mon dieu». L'épée est indissociable de la lumière de la torche:

“Dann bricht er mit Fackel und Schwert hervor

Und leuchtet durch der Ewigkeit Tor”.

[Alors, il s'élance avec flambeau et épée et illumine le chemin qui passe par la porte de l'éternité].

Vient la synthèse, dans cette description poétique de Wurche mort, dans sa tombe, une fleur de tournesol entre les mains:

“Drin schläft ein Jüngling mit Fackel und Schwert

Unter des Kreuzes Pfosten”.

[Là (dans cette tombe) dort un homme jeune, avec flambeau et épée, sous la croix].

Nous sommes proches finalement de cette tradition christo-païenne de la littérature médiévale courtoise; le Graal n'est pas loin dans ces deux vers évoquant l'ami Wandervogel:

“Er war ein Hüter, getreu und rein,

Des Feuers auf Deutschlands Herde”.

[Il était un gardien, fidèle et pur, du feu qui brûle en l'âtre de la Terre Thioise]. Flex nous offre finalement une synthèse de paganisme viril,  —au sens de vir, l'homme accompli—  et de compassion bouddhique.

 

Der Wanderer zwischen beiden Welten,  les lettres et les poèmes de guerre de Walter Flex sont avant toute chose une réflexion intense sur la mort. Le mystère de la mort tourmente puis fascine Walter Flex. Sa lettre, où il évoque les bougies du sapin de Noël de son abri sur le front russe et le “cercle des morts” où siègent Petzlein et Wurche, nous indique bien que leur troupe est la troupe des purs, celle des saints artisans qui «tirent l'acier du roc de nos âmes et le mettent à jour». La mort arrache les meilleurs soldats à la terre et les envoie dans son “royaume élyséen”. Ce sont bien les meilleurs qui ne reviennent pas, car ils sont appelés à incarner pour toujours, pour les siècles des siècles, l'idéal éthique; leur pureté et leur intangibilité en font des exemples immortels pour le peuple. Le Royaume des Morts, dans la vision de Flex, est le Royaume des vrais Vivants, il est comme l'idéal face aux imperfections du réel. Ces vrais Vivants, ces Purs, échappent aux viles petites passions des humains, englués dans leurs égoïsmes non sublimés. Mais s'ils sont exemples, et s'ils demeurent, dans la vision de Flex, haut dans l'empyrée des modèles impassables, ils sont aussi réfugiés, retournés, dans un sein maternel et tellurique. Leur tombe froide et l'image de la douceur du sein maternel fusionnent dans la poèsie et l'imaginaire passionnés du poète: car ces Morts, ces Purs, voyagent de leur empyrée sublime et idéale aux mystérieuses profondeurs fécondes de la terre, où ils rencontrent et illuminent ceux qui attendent encore leur naissance. Ils placent en eux la semence de leur excellence. Afin que le peuple puisse, plus tard, engranger une nouvelle moisson de héros. Significatif à cet égard est le poème Chor der deutschen Toten in Polen,  où le poète prédit un grand avenir au peuple polonais, parce que, dans sa terre, demeure pour l'éternité une vaste cohorte de héros allemands, qui communiqueront leur excellence aux fils et aux filles de Pologne.

 

Der Wanderer zwischen beiden Welten  a été le bréviaire de toute une génération. Il a redonné confiance et procuré consolation aux Allemands vaincus, après novembre 1918. Il a été un livre important. Qui a marqué le siècle, au même titre que les souvenirs de guerre d'Ernst Jünger (Orages d'acier, Le Boqueteau 125)  ou A l'Ouest, rien de nouveau  du pacifiste Erich Maria Remarque, très éloigné des valeurs des nationalistes, et aussi, finalement, de l'éthique hégélienne de la vieille Prusse. Il reste un immense travail de comparaison à faire sur l'impact philosophico-idéologique de la Grande Guerre et sur les innombrables écrits qu'elle a suscités. On a pu dire, dans notre insouciance, dans notre volonté de faire du passé table rase, dans notre course suicidaire à la consommation, que la Grande Guerre appartient définitivement au passé, qu'elle n'a plus rien à nous communiquer, qu'elle est la preuve la plus manifeste de la folie des hommes. Ces opinions ont peut-être leur logique, recèlent sans doute quelque pertinence positiviste, il n'empêche que sur le plan littéraire, elle a suscité des monuments éternels de la littérature universelle, elle a provoqué d'indicibles souffrances à des millions d'hommes, elle a porté au pinacle les affres de notre déréliction terrestre, les a démultipliés de manière exponentielle. Mais cette déréliction est un fait de monde incontournable. On n'échappe pas, on n'échappera jamais à la douleur en dépit des vœux pieux des intellectuels, des rêveurs, des eudémonistes de tous poils qui tentent de vendre leur camelote inessentielle. On n'abolira pas la mort qui obsédait Walter Flex et Ernst Wurche. Elle demeure, pour nous tous, au bout du chemin. Il faut l'assumer. En nous rapportant les paroles d'un tout jeune théologien jeté dans la guerre, en les immortalisant, en forgeant les mots simples qui ont touché et marqué durablement les combattants et tout son peuple, Walter Flex nous oblige à regarder ce destin en face, sans aucune grandiloquence  —car il abominait la grandiloquence—, avec des mots d'une sublime simplicité, où le cœur garde la toute première place, où jamais l'immense tendresse du poète et du fils, de l'ami et du pédagogue n'est absente. Car l'œuvre de Flex est aussi une grande leçon de tendresse, surtout quand elle jaillit du pire carnage guerrier de ce siècle. Walter Flex, et par son intermédiaire, Ernst Wurche, et derrière Ernst Wurche, les jeunes idéalistes du Wandervogel,  demeurés inconnus, dormant au fond d'une tombe à Langemarck ou ailleurs, nous ont légué un bréviaire, un livre de stoïcisme, à ranger dans nos bibliothèques à côté de Sénèque, de Marc-Aurèle et de l'Imitation de Jésus-Christ  de Thomas  à Kempis. (*)

 

Robert Steuckers,

Forest, janvier-avril 1995.

 

Sources:

- Nicola COSPITO, I Wandervögel. La gioventú tedesca da Gugliemo II al Nazionalsocialismo,  editrice il corallo, Padova, 1984.

- Walter FLEX, Gesammelte Werke,  2 vol., Beck'sche Verlagsbuchhandlung, München, s.d. (Introduction de Konrad Flex).

- Walter FLEX, Für dich, mein Vaterland. Ein Auswahl aus den Kriegsbriefen,  C.H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, München, 1939.

- Walter FLEX, Der Wanderer zwischen beiden Welten. Ein Kriegserlebnis,  Orion-Heimreiter-Verlag, Heusenstamm, 1978 (postface de Martin Flex).

- Michael GOLLBACH, Die Wiederkehr des Weltkrieges in der Literatur. Zu den Frontromanen der späteren Zwanziger Jahre, Scriptor Verlag, Kronberg/Ts., 1978.

- Hermann HELLER, Hegel und der nationale Machtstaatsgedanke in Deutschland. Ein Beitrag zur politischen Geistesgeschichte,  Aalen, Otto Zeller Verlagsbuchhandlung, 1963.

-Ernst KELLER, Nationalismus und Literatur. Langemarck. Weimar. Stalingrad,  Francke Verlag, Bern/München, 1970.

- Hellmuth LANGENBUCHER, Die deutsche Gegenwartsdichtung. Eine Einführung in das volkhafte Schrifttum unserer Zeit,  Junker u. Dünnhaupt Verlag, Berlin, 1940.

- Walter LAQUEUR, Die deutsche Jugendbewegung. Eine historische Studie, Verlag Wissenschaft und Politik/Berend von Nottbeck, Köln, 1978.

- Eric J. LEED, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale,  Il Mulino, Bologna, 1985.

- Robert LEGROS, Le jeune Hegel et la naissance de la pensée romantique,  Ousia, Bruxelles, 1980.

- Domenico LOSURDO, Hegel. Questione nazionale. Restaurazione. Presupposti e sviluppi di una battaglia politica, Università degli studi di Urbino, Urbino, 1983.

- Irmela von der LÜHE, «Der Wanderer zwischen beiden Welten von Walter Flex», in Marianne Weil (Hrsg.), Wehrwolf und Biene Maja. Der deutsche Bücherschrank zwischen den Kriegen,  Verlag Ästhetik und Kommunikation/Edition Mythos, Berlin, 1986.

- Reinhard MARGREITER, «Die achtfache Wurzel der Aktualität Schopenhauers», in Wolfgang SCHIRMACHER (Hrsg.), Schopenhauers Aktualität. Ein Philosoph wird neu gelesen, Passagen Verlag, Wien, 1988. A propos de ce livre, lire en français: Robert STEUCKERS, «Un ouvrage collectif sur Schopenhauer ou huit raisons de le relire», in Orientations, n°11, juillet-août 1989.

- Henri MASSIS, L'Occident et son destin,  Grasset, Paris, 1956 (ce volume reprend in extenso le texte «Défense de l'Occident» de 1925).

- Arno MULOT, Der Soldat in der deutschen Dichtung unserer Zeit,  J.B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, Stuttgart, 1938.

- Maurice MURET, «La pensée allemande et l'Orient», in La Revue Universelle, Tome VI, n°10, 15 août 1921.

- Rita THALMANN, Protestantisme et nationalisme en Allemagne (de 1900 à 1945),  Librairie Klincksieck, 1976.

- Michel TODA,  Henri Massis, un témoin de la droite intellectuelle,  La Table Ronde, Paris, 1987.

 

(*) Moine germano-néerlandais, né à Kempten en 1379 ou en 1380 et décédé à Agnietenberg près de Zwolle en 1471,  auteur de cette Imitation de Jésus-Christ  qui influença considérablement la pratique quotidienne du christianisme catholique jusqu'en ce siècle, probablement plus que les quatre évangiles! Thomas à Kempis  met davantage l'accent sur l'ascétisme que sur la mystique et demande à ses lecteurs de pratiquer une austérité modérée, non extrême, nouant ainsi avec un leitmotiv à la fois hellénique et nordique: celui de la mesure. Mais l'essentiel de cet ouvrage, écrit dans un contexte religieux particulier, celui des Frères de la Vie Commune, dévoués à l'éducation des plus démunis et à la charité. Le sens du service y est très présent. Le texte réclame l'engagement personnel total au profit d'autrui. Dans une perspective politique, et non plus simplement religieuse, cet engagement pourrait être étendu à la Cité entière. Le parallèle que l'on pourrait tracer entre l'Imitation de Jésus-Christ  et Der Wanderer zwischen beiden Welten,  c'est que les deux ouvrages, l'un religieux, l'autre laïc et militaire, sont des bréviaires anti-individualistes qui ont façonné en profondeur des générations; pendant des siècles pour l'œuvre majeure de Thomas à Kempis; pendant deux à trois décennies pour celle de Flex.

samedi, 06 décembre 2008

14-18 : bourrage de crâne et réinformation

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1914-1918 : bourrage de crâne et réinformation

http://www.polemia.com

Auteur à peine connu, lui-même ancien combattant de 1914-1918, Norton Cru a mis son expérience de poilu au service de l’étude et de la critique des témoignages.
En 1929, son remarquable essai « Témoins » (1), sous-titré de manière explicite « Essai d'analyse et de critique des souvenirs de combattants édités en français de 1915 à 1928 », provoqua de violentes polémiques, avec toute la virulence dont était capable la presse de l’époque. Son ouvrage remettait en cause, par exemple, le caractère véridique et réaliste de romans aussi célèbres que « Le Feu » d'Henri Barbusse ou les écrits de Roland Dorgelès. Seul contre tous, il a dû repartir pour les Etats-Unis reprendre l’enseignement qu’il avait dû quitter en 1914 pour rejoindre le front. Son livre est quasiment tombé dans l’oubli du public mais, heureusement, pas dans celui des universitaires (2).
Mais si les témoignages des survivants de l’horrible massacre ne correspondaient pas exactement à la réalité des faits, il faut dire que, pendant la longue durée des hostilités, s’était propagée dans les médias de l’époque, c’est-à-dire les journaux à forte imprégnation idéologique, une propagande à la fois naïve et exécrable qui avait conditionné les esprits aussi bien de ceux de l’arrière que ceux des combattants du front eux-mêmes. Aujourd’hui, avec l’amélioration constante et foudroyante des  technologies de communication, on a fait beaucoup mieux en matière de propagande : voir, par exemple, les couveuses du Koweit et les armes de destruction massive (ADM) irakiennes.

Polémia

Tous ces bobards dans les journaux, pendant la guerre de 1914-1918 : un cas d’école

Le 90e anniversaire de l’armistice de 1918 a montré que cette guerre ne cesse pas de hanter la mémoire collective, en particulier par ses atrocités longtemps occultées. Le président de la République a ainsi évoqué, le 11 novembre dernier, avec justesse dans son discours à la Nécropole nationale de Douaumont ces hommes fusillés « pour l’exemple », « dont on avait trop exigé, qu’on avait trop exposés, que parfois des fautes de commandement avaient envoyés au massacre et qui un jour n’ont plus eu la force de se battre. »

Un autre aspect de cette guerre mérite aussi d’être gardé en mémoire pour le présent comme pour l’avenir : c’est la mobilisation des journaux soumis à la censure avec leurs colonnes blanches, sous prétexte d’accroître les ressources morales des citoyens du pays en guerre. On l’a nommée « le bourrage de crâne ». On reste médusé. Comment, en effet, les journaux ont-ils pu diffuser si massivement des informations aussi invraisemblables sans craindre de perdre toute crédibilité ?

I – Une diffusion massive de leurres invraisemblables

 C’est à longueur de colonne qu’ils répandent les informations les plus absurdes.

1/ Des bobards énormes

Ces bobards ont trait aux armes. Plus elles sont perfectionnées, moins elles causent de morts et de blessés ! (« Le Temps », 4/8/1914). Celles de l’ennemi, en tout cas, ne sont pas dangereuses ; c’est de la camelote ! (« L’Intransigeant », 17/8/1914) : les obus (shrapnels) éclatent en pluie de fer inoffensive ! Les blessures par balles ne sont pas dangereuses ! Les gaz asphyxiants, eux, ne sont pas bien méchants ! (« Le Matin de Paris », 27/4/1915). En somme, les balles allemandes ne tuent pas ! En revanche, les armes françaises sont, elles, efficaces : la baïonnette est même une arme « poétique », « chevaleresque » même, « d’une sûreté chirurgicale » !… (« L’Echo de Paris », 10/7/1915, « L’Intransigeant », 15/12/1914).

Les hommes, eux, sont répartis en deux camps évidemment.
• L’ennemi allemand est taré : il est maladroit dans ses tirs (« L’Intransigeant », 17/8/1914) ; c’est un barbare qui coupe les mains des enfants et attache les prêtres aux battants des cloches ou transforme les cadavres en savon (« The Sunday Chronicle », «  Corriere della Sera », « Le Matin de Paris », fin août 1914) ; c’est même un lâche qu’il faut injurier pour l’obliger à combattre (« L’Echo de Paris », 15/8/1914).
• Rien à voir, évidemment, avec le soldat français qui, lui, au contraire, est héroïque : il se dispute avec ses camarades pour monter au front (« Le Matin de Paris », 15/11/1914) ; il supporte les blessures avec gaieté, fierté et courage (« L’Intransigeant », 17/8/1914) ; le sens du devoir l’empêche de ressentir la douleur, telle l’ordonnance qui vit sa main tranchée par un éclat d’obus et alla la ramasser encore toute crispée sur le message qu’il apportait au général, avant de s’évanouir (« L’Intransigeant », 3/9/1916) ; la guerre lui paraît, en tout cas, moins redoutable que le baccalauréat (« Le Petit Journal », 11/7/1915 ) ; il se demande même ce qu’il pourra bien faire quand la guerre sera finie (« Le Petit Parisien », 22/5/1915) ; blessé, le soldat souhaite écourter sa convalescence pour repartir au front le plus tôt possible (« Le Petit Journal », 5/5/1916).

2/ La création d’une hallucination collective
Ce sont là, on en conviendra, des bobards invraisemblables pour un esprit rationnel, qui contribuent à l’instauration d’une hallucination collective. La relation de cause à effet n’est plus perçue ; l’évidence est niée.
L’innocuité des armes est proportionnelle à leur perfectionnement ; obus, balles et gaz, armes redoutables, sont présentés comme inoffensifs ; la baïonnette est célébrée, avec fétichisme, comme une personne impatiente de tuer l’ennemi.
Le jugement sur les hommes est, quant à lui, d’une partialité outrancière selon une distribution manichéenne des rôles caricaturale : l’ennemi allemand est nul ; le soldat français est héroïque. Les faits rapportés sont même contradictoires : l’ennemi est maladroit et ses armes inefficaces, mais il y a pourtant des morts et des blessés français en grand nombre ; l’ennemi est nul, mais le soldat français est héroïque : or « à vaincre sans péril, (ne) triomphe (-t-on pas) sans gloire » ? 

II – Un faisceau de réflexes stimulés favorisant la réceptivité aux bobards

Comment les journaux ont-ils pu massivement diffuser de tels bobards sans craindre de perdre tout crédit ? On propose une hypothèse : les lecteurs prenaient ces bobards pour des informations fiables, compte tenu de leur cadre de référence qui les rendait insensibles aux relations de cause à effet, aux contradictions et à la partialité des jugements. Le « bourreur » implique un « bourré » qui consent à ce qu’on lui « bourre » le crâne. Et quelle responsabilité en revient à l’Ecole d’alors ? A quoi donc a servi l’instituteur qu’il est d’usage de couvrir d’éloges et de célébrer comme « le hussard noir de la République » ?

1/ Le cadre de référence des lecteurs a été formé avant la guerre où étaient inculqués des réflexes de patriotisme et de nationalisme :

         a) Un patriotisme blessé
Depuis 1871, un patriotisme blessé de défense est inculqué au citoyen français qui doit se préparer à la revanche contre la Prusse/Allemagne pour récupérer les provinces perdues, l’Alsace et la Lorraine. A l’école primaire on apprend à lire dans le livre de Bruno, « Le tour de France par deux enfants », qui mène les écoliers de province en province jusqu’à se heurter « à la ligne bleue des Vosges » au-delà de laquelle vivent sous la botte allemande les chères provinces perdues…

         b) Un nationalisme vengeur
Ce patriotisme de défense s’accompagne d’un nationalisme vengeur : celui-ci célèbre l’excellence de la nation française ; et simultanément est enseignée la haine du « boche » barbare qui occupe indûment une partie du territoire national.

2/ Pendant la guerre, trois réflexes principaux sont activement stimulés :

         a) Le premier est « la transe de la forteresse assiégée » qui fait taire toutes les querelles et les critiques face au danger commun. A la déclaration de guerre en août 1914, le pays est tétanisé par le réflexe du patriotisme : c’est « l’Union sacrée » de quasiment toutes les familles d’opinion autour du gouvernement.

         b) Le deuxième est la soumission aveugle à l’autorité qui conduit les citoyens à croire l’information que livre, par le canal des journaux, le gouvernement en charge du salut du pays.

         c) Le troisième est la soumission de l’individu à la pression exercée par le groupe, qui rend difficile toute velléité d’indépendance d’esprit et de doute méthodique, avec la crainte, en se distinguant, de passer pour un traître. Dans le danger, l’individu est contraint de s’intégrer davantage au groupe, pour les informations, les conduites à tenir, l’alimentation, etc.

3/ Ces trois réflexes sont, en outre, associés à trois autres qui paralysent toute exigence de rationalité :

         a) L’un est évidemment le réflexe inné de la peur.

         b) Le deuxième est le réflexe socioculturel conditionné de compassion et d’assistance à personne en danger. Ce réflexe est stimulé par la division du pays en deux : l’arrière et le front, qui implique une distribution manichéenne des rôles :

  1. au front se trouvent ceux qui exposent leur vie, les courageux, les meilleurs, les héros ;
  2. à l’arrière s’abritent les autres, qui contribuent à l’effort de guerre mais ne peuvent rivaliser avec les héros ; ils sont parfois même suspectés d’être des « tire-au-flanc » ou des profiteurs.

c) Le dernier réflexe est le réflexe de culpabilité.

Cette distribution manichéenne des rôles favorise une prise de partie favorable pour ceux du front, les héros, et défavorable pour ceux de l’arrière, qui connaissent, bon gré, mal gré, un sentiment de culpabilité, avivé par des affiches (Cf. « Moi, je verse mon sang. Et vous ? Versez votre or ! »).

L’inconfort du réflexe de culpabilité peut alors être soulagé de trois manières :

• L’héroïsation à volonté des soldats en est une : elle ne souffre évidemment aucune discussion.
• L’assistance humanitaire en est une autre, par l’envoi de dons en argent ou en nature (les colis, les parrainages) aux soldats du front.
• La troisième manière n’est pas moins efficace : c’est une possible grande réceptivité à des informations minimisant les dangers encourus par les soldats du front : moins le danger est grand, moins grand est le sentiment de culpabilisation envers les soldats. Paradoxalement, les soldats du front, eux-mêmes, lors des permissions ou à leur retour, contribuent par pudeur ou fanfaronnade, à minimiser les risques encourus, allant ainsi au devant de l’attente des récepteurs culpabilisés dont la peur et la culpabilisation peuvent décroître.

On peut penser – du moins est-ce une hypothèse plausible – que sous l’empire de ces réflexes conjugués le citoyen est devenu sourd et aveugle à toute rationalité : les bobards les plus invraisemblables pouvaient lui être servis à volonté par des journaux que censuraient les dirigeants politiques et militaires. Ceux-ci avaient ainsi les coudées franches pour agir à leur guise.

Qu’en serait-il aujourd’hui ? Qui oserait affirmer qu’avec 90 ans d’Ecole publique laïque supplémentaires le niveau culturel atteint par la moyenne des Français les met à l’abri de pareilles aventures hallucinatoires ?

Paul Villach
18/11/08
http://www.agoravox.fr/article.php3?id_article=47397...

Correspondance Polémia
24/11/08

(1) Norton Cru, « Témoins », Presses universitaires de Nancy, 1993 (Ed. Les Etincelles, 1929, pour l'édition originale).

(2) Frédéric Rousseau, « Le Procès des témoins de la Grande Guerre. L'Affaire Norton Cru », Ed. du Seuil, 2003, p. 267.

Paul Villach

mardi, 18 novembre 2008

1918: la grande illusion

1918 - La grande illusion

Le numéro 39 de la Nouvelle revue d'histoire est en kiosque et propose un dossier consacré à la dernière année de la Grande guerre.

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lundi, 03 novembre 2008

De literaire voorkeuren van J. van Severen tijdens de Eerste Wereldoorlog (1914-1918)

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De literaire voorkeuren van Joris van Severen

tijdens de Eerste Wereldoorlog (1914-1918)

Kurt Ravyts, Brugge

Zoals ik reeds in de inleiding van mijn artikel over Joris van Severen en de avant-garde in de spiegel van Ter Waarheid (1921-1924)1 schreef wordt Van Severen bij talrijke historici en het grote publiek ook anno 2004 nog altijd gereduceerd tot de militaristische en fascistische leider van het anti-democratische en virulent antisemitische Verdinaso.2 Het Jaarboek Joris van Severen en het Studiecentrum Joris van Severen bewijzen nu echter reeds bijna tien jaar en dit in opvolging van het Nationaal Studie- en Coördinatiecentrum in Aartselaar, dat dit beeld op zijn zachtst gezegd best wordt bijgesteld en geven historici die naar volledigheid en objectiviteit streven volop de gelegenheid om ook een  ‘andere’  Joris Van Severen te leren kennen.3 

Dat er ook een ‘andere’ Van Severen bestond werd echter zelfs voor specialisten pas volledig duidelijk doorheen het beschikbaar worden van het privé-archief van Joris van Severen dat  door zijn neef ere-notaris Rudy Pauwels, zoon van Jeanne van Severen, aan het universiteitsarchief van de Katholieke Universiteit Leuven werd geschonken. Sinds januari 2004 berust het volledige privé-archief van Joris van Severen in dit archief dat zich in de indrukwekkende Leuvense universiteitsbibliotheek bevindt.

Met dit onderzoek wilde ik opnieuw aanknopen bij mijn bijdrage uit 1997 over de invloed van Gabriele D’Annunzio en Leon Bloy op de jonge Joris van Severen tijdens de eerste wereldoorlog.4  Ik erkende toen voor mijn bronnen bijna volledig schatplichtig te zijn aan het Oorlogsdagboek van Van Severen, een mijns inziens bijzonder aangrijpend document waarin hij zijn diepste zieleroerselen maar ook meer intellectuele en literaire beschouwingen neerpende. Dit maal koos ik voor een bredere benadering waarbij ik zal proberen de lezer een beeld te geven van de literatuur die Joris van Severen tijdens de Eerste Wereldoorlog verzamelde en las. Zoals ik ook al in 1997 beklemtoonde is de receptie, verwerking en evaluatie van deze literatuur bij Van Severen altijd verweven met persoonlijke, subjectieve factoren. M.a.w. de omstandigheden, noodlottigheden, spanningsvelden, karakterschetsen, enz… die hij in verscheidene romans las koppelde hij vaak terug naar zijn eigen wedervaren en hiermee gepaard gaande gevoelens. In die zin voegt een belichten van de door Joris van Severen’ gelezen literatuur tijdens de Eerste Wereldoorlog ook opnieuw enkele tot nog toe vrijwel onbekend gebleven elementen toe aan zijn biografie. Kortom, literatuur speelde ook bij Joris van Severen een essentiële rol bij het tot stand komen van de grondlijnen van zijn persoonlijkheid.

Ook nu vormen de oorlogsdagboeken de belangrijkste bron voor deze bijdrage. De ‘oorlogslectuur’ van Van Severen werd naast mijn bijdrage over de invloed van Léon Bloy en Gabriele D’Annunzio enkel nog maar door Luc Pauwels van nabij onder de loupe genomen. Arthur de Bruyne beperkte zich in zijn bekende biografie Joris van Severen. Droom en daad tot de mededeling dat Van Severen tijdens de Eerste Wereldoorlog veel las en tot het opsommen van een aantal auteurs. Rachel Baes daarentegen, ging in Joris Van Severen. Une âme wel in op de literaire keuzes van Van Severen maar putte vrijwel uitsluitend uit Van Severens briefwisseling met Charles Gouzée de Harven met wie zij bevriend was.5

In zijn zeer gedegen licentiaatsthesis De ideologische evolutie van Joris van Severen (1894-1940).Een hermeneutische benadering behandelde Luc Pauwels echter op de eerste plaats de totale bibliotheek van Van Severen en splitste hij voor zijn onderzoek de lectuur uit de oorlogsdagboeken dus niet af.  Boven bestudeerde hij deze bibliotheek en de oorlogslectuur vooral als bronnen voor de studie van Van Severens ideologie. Volgens Luc Pauwels werd de ideologie van Joris van Severen via het antimilitarisme vanaf einde 1916 uitgesproken links-revolutionair. Hij noemt het zelfs een  “emotioneel bolsjewisme verbonden met Vlaams-nationale motieven”. Volgens Pauwels betreft het een “nationaal-revolutionaire” ideologie die vanaf 1922 om-zwaait naar ultramontaans katholicisme, enkele jaren later naar solidarisme en nationaalsolidarisme en in de jaren dertig zelfs naar politiek corporatisme.6

Ik ben het slechts ten dele eens met de bevindingen van Luc Pauwels. Diens benadering was geen onderzoek naar de literaire interesses van Joris van Severen an sich en zeker niet naar de appreciatie en persoonlijke verwerking van Van Severen van deze literaire keuzes. Mocht Luc Pauwels een meer gediversifieerde benadering hebben verkozen dan zou hij hebben gemerkt dat van zeer duidelijke, uitgekristalliseerde ideologische evoluties en breuklijnen bij Van Severen eigenlijk niet direct sprake is. Ik zou het eerder accentverschillen noemen en wisselende uitingen van een wezenlijk  “eclectische” en  “caleidoscopische” persoonlijkheid. Wat hij dus in het begin van de  “Grote Oorlog” over zichzelf schreef bleef eigenlijk relevant in en voor zijn verdere leven: “Echt en hevig rechtzinnig revolutionair. Overgevoelig. Schrijnend lijdend aan liefdeloosheid en nood aan een diepe vrouwenziel. Zo individualistisch en anarchist als het maar zijn kan. En toch in mijzelf een behoefte voelend en een begeerte naar orde, tucht, hiërarchie en sociale inrichting.

Geestelijke wildheid, primitiefheid, Dostojevski en vagebond. Maar diep in mij meer de Goethiaansche orde, natuur die alle dingen juist meet en op haar nodige plaats wil.

Socialistische armoedigheid, als een zwerver aangekleed en leven. En toch ook begeerte naar een gentleman, aristocratisch, mooie klederdracht en hoofse gemanierdheid.

Eenzame dromer en apostel, werkdadige Leider van een Beweging. Hooghartig misprijzen, pose en medelijden.”7. Deze zelfanalyse vormt als het ware een programma voor zijn verdere leven waarvan hij, mee evoluerend met de historische context,  bepaalde facetten van beklemtoonde en realiseerde maar ook weer afbouwde. Hetzelfde persoonlijkheids-programma zien we ook weerspiegeld in zijn literaire keuzes tijdens de Eerste Wereldoorlog zoals ik ze tijdens deze uiteenzetting aan u presenteer.

______________________

1. Ravyts, K., Joris van Severen en de avant-garde in de spiegel van Ter Waarheid, in Jaarboek Joris van Severen 4, Ieper, 2000, pp.45-123.

2. Illustratief is het artikel  ‘Zwart gaat moeilijk af’ van ene Dimitri Verhulst in De Morgen van 9 juli 2003. Dit artikel werd opgenomen in het boek  Hij was een zwarte dat naast de in 1946 geschreven gelijknamige reportage van Louis Paul Boon ook teksten van literatuurwetenschapper en Boon-biograaf Kris Humbeeck en historicus Chris van der Heijden bevat.  Verhulst schrijft wanneer hem door zijn gesprekspartner gevraagd wordt of hij weet wie Van Severen is volgende onzin : “Tenzij er een andere Joris van Severen is dan die kleine, magere man uit Wakken die vaker van politieke overtuiging dan van onderbroek veranderde, die een tijdschrift oprichtte waarin aanvankelijk nog socialisten publiceerden, uiteindelijk het Verdinaso stichtte, ontroerd raakte bij de aanblik van jonge knaapjes die met wimpeltjes en pennoentjes en trommeltjes voor hem paradeerden, wiens geluk niet opkon als hij maar even Mussoliniaans kon salueren naar pakweg een door duiven bescheten standbeeld van Willem van Oranje, en die ontgoocheld was in vele fascistische partijen omdat ze niet ondemocratisch en antisemitisch genoeg waren naar zijn gedacht, en die ze aan het begin van de grote wereldbrand in Abbeville hebben omgebracht… tenzij er nog een andere Von, pardon, di Severini is, weet ik over wie J. het heeft.”.

3.Die ‘andere’ Van Severen treedt sterk naar voor in de fascinerende biografie van Rachel Baes, in 2002 gepubliceerd door de Brugse publicist Patrick Spriet, Een tragische minnares. Rachel Baes, Joris van Severen, Paul Léautaud en de surrealisten, Leuven, 2002.

4. Ravyts, K., De invloed van Gabriele D’Annunzio en Léon Bloy op de persoonlijkheid en de religiositeit van de jonge Joris van Severen, in Jaarboek Joris van Severen, Ieper, 1997, pp.67-119.

5. Ravyts, K., Joris van Severen en de avant-garde in de spiegel van Ter Waarheid, in Jaarboek Joris van Severen 4, Ieper, 2000,  pp.45-123.

6. Pauwels, L.. De ideologische evolutie van Joris van Severen (1894-1940). Een hermeneutische benadering. Deel I, Leuven, 1998, pp.264-267.

7 Van Severen, A., Joris van Severen, het verhaal van een leven. Deel 1: Van 1894 tot 1929, Brugge, 1995,  p.79.

jeudi, 30 octobre 2008

Otto Dix: un regard sur le siècle

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Otto Dix, un regard sur le siècle

 

Guillaume HIEMET

 

Le centième anniversaire de la naissance d'Otto Dix a été l'occasion pour le public allemand de découvrir la richesse de la production d'un peintre largement méconnu. Plus de 350 œuvres ont en effet été exposées jusqu'au 3 novembre 1991, dans la galerie de la ville de Stuttgart, puis, à partir du 29 novembre, à la Nationalgalerie de Berlin. Peu connu en France, classé par les critiques d'art parmi les représentants de la Nouvelle Objectivité (Neue Sachlichkeit), catalogué comme il se doit, Otto Dix a toujours bénéficié de l'indulgence de la critique pour un peintre qui avait dénoncé les horreurs de la première guerre mondiale, figure de proue de l'art nouveau dans l'entre-deux guerres, et ce, en dépit de son incapacité à suivre la mode de l'abstraction à tout crin dans l'après-guerre. Quelques tableaux servent de support à des reproductions indéfiniment répétées et à des jugements qui ont pris valeur de dogmes pour la compréhension de l'œuvre. A l'encontre de ces parti-pris, les expositions de 1991 permettent aux spectateurs de se faire une idée infiniment plus large et plus juste des thèmes que développent la production de Dix.

 

Dix est né le décembre 1891 à Untermhaus, à proximité de Gera, d'un père, ouvrier de fonderie. Un milieu modeste, ouvert cependant aux préoccupations de l'art; sa mère rédigeait des poèmes et c'est auprès de son cousin peintre Fritz Amann que se dessina sa vocation artistique. De 1909 à 1914, il étudie à l'école des Arts Décoratifs de Dresde. Ses premiers autoportraits, à l'exemple de l'Autoportrait avec oeillet  de 1913, sont clairement inspirés de la peinture allemande du seizième siècle à laquelle il vouera toujours une sincère admiration. Ces tableaux de jeunesse témoignent déjà d'un pluralisme de styles, caractérisé par la volonté d'intégrer des approches diverses, par la curiosité de l'essai qui restera une constante dans son œuvre.

 

La guerre: un nouveau départ

 

En 1914, Dix s'engageait en tant que volontaire dans l'armée. L'expérience devait, comme toute sa génération, profondément le marquer. S'il est une habitude de dépeindre Dix comme un pacifiste, son journal de guerre et sa correspondance montrent un caractère sensiblement différent. La guerre fut perçue par Dix, comme par beaucoup d'autres jeunes gens en Allemagne, comme l'offre d'un nouveau départ, d'une coupure radicale avec ce qui était ressenti comme la pesanteur de l'époque wilhelminienne, sa mesquinerie, son étroitesse, sa provincialité qu'une certaine littérature a si bien décrites. Elle annonçait la fin inévitable d'une époque. Les premiers combats, l'ampleur des destructions devaient, bien sûr, limiter l'enthousiasme des départs, mais le gigantisme des cataclysmes que réservait la guerre, n'en présentait pas moins quelque chose de fascinant. Le pacifiste Dix se rapproche par bien des aspects du Jünger des journaux de guerre. L'épreuve de la guerre pour Ernst Jünger trempe de nouveaux types d'hommes dans le monde d'orages et d'acier qu'offrent les combats dans les tranchées.

 

Avec nietzsche: “oui” aux phénomènes

 

Une philosophie nietzschéenne se dégage, “la seule et véritable philosophie” selon Dix, qui, en 1912, avait notamment élaboré un buste en platre en l'honneur du philosophe de la volonté de puissance. Des écrits de Nietzsche, Dix retient l'idée d'une affirmation totale de la vie en vertu de laquelle l'homme aurait la possibilité de se forger des expériences à sa propre mesure. Ainsi, il note: «Il faut pouvoir dire “oui” aux phénomènes humains qui existeront toujours. C'est dans les situations exceptionnelles que l'homme se montre dans toute sa grandeur, mais aussi dans toute sa soumission, son animalité». C'est cette même réflexion qui l'incite à scruter le champ de bataille, qui le pousse à observer de ses propres yeux, si importants pour le peintre, les feux des explosions, les couleurs des abris, des tranchées, le visage de la mort, les corps déchiquetés.

 

De 1915 à 1918, il tient une chronique des événements: ce sont des croquis dessinés sur des cartes postales, visibles aujourd'hui à Stuttgart, qui ramassent de façon simple et particulièrement intense l'univers du front. Le regard du sous-officier Dix a choisi de tout enregistrer, de ne jamais détourner le regard puis de tout montrer dans sa violence, sa nudité. Les notes du journal de guerre montrent crûment sa volonté de considérer froidement, insatiablement le monde autour de lui. Ainsi, en marche vers les premières lignes: «Tout à fait devant, arrivé devant, on n'avait plus peur du tout. Tout ça, ce sont des phénomènes que je voulais vivre à tout prix. Je voulais voir aussi un type tomber tout à côté de moi, et fini, la balle le touche au milieu. C'est tout ça que je voulais vivre de près. C'est ça que je voulais». Dans cette perception de la réalite, Dix souligne le jeu des forces de destruction, les peintures ne semblent plus obéir à aucune règle de composition si ce n'est les repères que forment les puissances de feu, les balles traçantes, les grenades. Tout dans la technique du dessin sert, contribue vivement à cette impression d'éclatement, les traits lourds brusquement interrompus, hachures des couleurs, parfois plaquées. Le regard est obnubilé par la perception d'ensemble, la brutalité des attaques, vision cauchemardesque qui emporte tout.

 

La dissolution de toute référence stable

 

Le réalisme de ces années 1917-1918 qui caractérise ces dessins et gouaches est dominé par cette absence d'unité, l'artiste a jeté sur la toile tel un forcené la violence de l'époque, la dissolution de toute reférence stable. L'abstraction dit assez cette incapacité de se détourner des éclairs de feu et de se rapprocher du détail. Cette peinture permettra pareillement à Dix de conjurer peu à peu les souvenirs de tranchées. Ce rôle de catharsis, cette lente maturation s'est faite dans son esprit pendant les années qui suivent la guerre. L'évolution est sensible. Ce sont en premier, le cycles des gravures intitulé la Guerre qu'il réalise en 1924 puis les grandes compositions des années 1929-1936. Les gravures presentent un nouveau visage de la guerre, Dix s'attarde à représenter le corps des blessés, les détails de leurs souffrances. Ici, le terme d'objectivité est peut-être le plus approprié, il n'est pas sans évoquer toutefois les descriptions anatomiques du poète et médecin Gottfried Benn. Le soin ici de l'extrême précision, de la netteté du rendu prend chez ces guerriers mourants, mutilés ou dans la description de la décomposition des corps une force incroyable.

 

Les souvenirs de guerre ne se laissaient pas oublier aisément, il avouait lui-même: «pendant de longues années, j'ai rêvé sans cesse que j'étais obligé de ramper pour traverser des maisons détruites, et des couloirs où je pouvais à peine avancer». Dans les grandes toiles qu'il a peintes après 1929, il semble que Dix soit venu à bout des stigmates, entaillés dans sa mémoire, que lui avaient laissées la guerre, ou tout du moins que l'unité ait pu se faire dans son esprit. La manière dont l'art offre une issue aux troubles des passions, ce rôle pacificateur, il l'évoque à plusieurs moments dans des entretiens à la fin de sa vie. Dans ces toiles grands-formats qui exposent maintenant, l'univers de la guerre, se conjuguent une extrême précision et l'entrée dans le mythe que renforce encore la référence aux peintres allemands du Moyen-Age. Dix a choisi pour la plus importante de ces oeuvres, un tryptique, La Guerre, la forme du retable. Le renvoi au retable d'Isenheim de Mathias Grünewald, étrange et impressionnant polyptique qui dans la succession de ses volets propose une ascension vers la clarté, l'aura de la Nativité et de la Résurrection, est explicite. En comparaison, le triptyque de Dix semble une tragique redite du premier volet de Grünewald, La tentation de Saint Antoine. Ici, l'univers apocalyptique de la guerre, la mêlée de corps sanglants, les dévastations de villages minés par les obus, correspondent aux visions délirantes de monstres horribles et déchainés, aux corps repoussants, aux gueules immondes mues par la bestialité de la destruction chez Grünewald.

 

des tranchées aux marges de la société

 

L'impossibilité de s'élever vers la clarté, l'éternel recommencement du cycle de destructions est accentué par l'anéantissement du pont qui ferme toute axe de fuite et le dérisoire cadavre du soldat planté sur l'arche de ce pont qui forme une courbe dont l'index tendu pointe en direction du sol. Le cycle du jour est rythmé par la marche d'une colonne dans les brouillards de l'aube, le paroxysme des combats du jour, et le calme, la torpeur du sommeil, les corps allongés dans leur abris que montre la predelle (le socle du tableau). L'effet mythique est encore accentué par la technique qu'utilise Dix pour ces toiles: la superposition de plusieurs couches de glacis transparents, technique empruntée aux primitifs allemands, qui nécessite de nombreuses esquisses et qui confère une perfection, une exactitude extraordinaire aux scènes représentées. Ainsi dans le tableau de 1936, la mort semble être de tout temps, la destinée des terres dévastées de Flandre  —“en Flandre, la mort chevauche...”, selon les paroles d'un air de 1917—,  et le combat dans son immensité parvient à une dimension cosmique.

 

Sous la République de Weimar, Dix conserve en grande partie le style éclaté des peintures de guerre. Il demeure successivement à Dresde, Düsseldorf, Berlin puis à nouveau Dresde jusqu'en 1933. Les thèmes que traite Dix se laissent difficilement résumer: le regard froid des tranchées se tourne vers la société, une société caractérisée, disons-le, par ces marges. Dix est fasciné par le mauvais goût, la laideur, les situations macabres, grotesques. L'esprit du temps n'est pas étranger à cet envoûtement pour la sordidité, et souvent ses personnages tiennent la main aux héroïnes de l'opéra d'Alban Berg Lulu:  thèmes des bas-fonds de la littérature, aquarelles illustrants les amours vénales des marins, accumulation de crimes sadiques décrits avec la plus grande exactitude. Le cynisme hésite entre le sarcasme et l'ironie la moins voilée. L'atmosphère incite aux voluptés sommaires, comme disait un écrivain français. Une des figures qui apparaît le plus souvent et qui nous semble des plus caractéristiques, est celle du mutilé. La société weimarienne ne connaît pour Dix qu'estropiés, éclopés, que des bouts d'humanité, et tout donne à penser que ce qui est valable pour le physique l'est aussi pour le mental. Ainsi les cervelets découpés et asservis aux passions les plus vulgaires et les plus automatiques.

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déshumanisation, désarticulation, pessimisme

 

Une des peintures les plus justement célèbres de Dix, la Rue de Prague  en 1920, fournit un parfait résumé des thèmes de l'époque. D'une manière particulièrement féroce, Dix place les corps désarticulés de deux infirmes à proximité des brillantes vitrines de cette rue commerçante de Dresde, dans lesquelles sont exposés les mannequins et autres bustes sans pattes. Le processus de déshumanisation est complet, les infirmes détraqués, derniers restes de l'humain trouvent leur exact répondant dans la vie des marionnettes. La composition du tableau  —huile et collage—  accentue d'autant plus la désarticulation des corps, la régression des mouvements et pensées humains à des processus mécaniques dont l'aboutissement symbolique est la prothèse. Nihilisme, pessimisme complet, dégoût et aversion affichée pour la société, il y a sans doute un peu de tout cela.

 

Bien des toiles de cette époque pourraient être interprétées comme une allégorie méchante et sarcastique de la phrase de Leibniz selon laquelle “nous sommes automates dans la plus grande partie de nos actions”. L'absence de plan fixe, de point d'appui suggère cette dégringolade vers l'inhumain. Le rapprochement de certains tableaux de cette époque  —Les invalides de guerre, 1920—  avec les caricatures de George Grosz est évident, mais celui-ci trouve bientôt ses limites, car très vite il apparaît que si la source de tout mal pour Grosz se situe dans la rivalité entre classes, pour Dix, le mal est beaucoup plus profond. La société tout entière se vend, tel est le thème du grand triptyque de 1927-1928, La grande ville, misère et concupiscence d'une part, apparence de richesse, faste et vénalité de l'autre. Rien ne rachète rien. On a souvent reproché à Dix son attirance pour la laideur, la déchéance physique et la violence avec laquelle il traite ses sujets. La volonté de provocation rentre directement en ligne de compte, mais plus profondément, ces thèmes se présentaient comme un renouvellement de la peinture. Il avouait d'ailleurs: “j'ai eu le sentiment, en voyant les tableaux peints jusque là, qu'un côté de la réalité n'était pas encore représenté, à savoir la laideur”.

 

Haut-le-cœur, immuables laideurs

 

Si l'impressionnisme a porté le réalisme jusqu'à son accomplissement ce qui n'était pas sans signifier l'épuisement de ces ressources, les tentatives des années vingt restent exemplaires. Le beau classique s'était mû en un affadissement de la réalité, la perte de la force inhérente à la peinture ne pouvait être contrecarrée d'une part, que par une abstraction de plus en plus poussée à laquelle tend toute la peinture moderne, de l'autre, par la confrontation avec un réel non encore édulcoré. Naturellement, de la façon dont Dix, animé d'une sourde révolte, tire sur les conformismes du temps, on comprend le haut-le-cœur des contemporains devant ces corps qui semblent jouir du seul privilège de leur immuable laideur. Aujourd'hui cependant, le spectateur n'est pas sans sourire à cette atmosphère encanaillée des pièces de Brecht, aux voix légèrement discordantes, le parler-peuple de l'Opéra de Quatre-sous. Il en est de même de la caricature de la société de Weimar, attaque frontale contre les vices et vertus de l'époque à laquelle procède méthodiquement Dix, époque de vieux, de nus grossiers, de mères maquerelles, de promenades dominicales pour employés de commerce.

 

La toile Les Amants inégaux  de 1925, dont il existe également une étude à l'aquarelle, condense particulièrement les obsessions chères à Dix. Un vieillard essaie péniblement d'étreindre une jeune femme aux formes imposantes qui se tient sur ses genoux. Le caractère vain du désir, l'intrusion de la mort dans les jeux de l'amour que symbolisent les longues mains décharnées du vieillard forment une danse étonnante de l'aplomb et de la lassitude, de la force charnelle et de sa disparition.

 

les révélations des autoportraits

 

Dix a tout au long de sa vie produit un grand nombre de portraits. L'exposition de Stuttgart en 1991 a montré le fabuleux coloriste qu'il fut. Il affectionne les rouges sang, le fard blanc qui donne aux visages quelque chose du masque, de tendu et de crispé, et les variations de noir et de marron que fournit la fourrure de Martha Dix dans le magnifique portrait de 1923. Selon l'aveu même du peintre, l'accentuation des traits jusqu'à la caricature ne peut que dévoiler l'âme du personnage et la résume d'une façon à peu près infaillible. Il n'est pas interdit de retourner cette remarque à Dix lui même, car il n'est pas sans se projetter dans sa peinture et tout d'abord, dans les nombreux autoportraits que nous disposons de lui. L'esprit qui anime les peintures de l'entre-deux guerres se retrouvent ici aisément: l'Autoportrait avec cigarettes de 1922, une gravure, partage la brutalité des personnages qu'il met en scène. Dix se présente les cheveux gominés, les sourcils froncés, le front décidément obtus, la machoire carrée, bref, une aimable silhouette de brute épaisse dont seul la finesse du nez trahit des instincts plus fins que viennent encore démentir la clope posée entre les lèvres serrées. Qui pourrait nier que ces autoportraits fournissent des équivalences assez exactes de la rudesse et de la brutalite de la peinture de Dix?

 

Art dégénéré ou retour du primitivisme allemand?

 

A partir de 1927, Dix fut nomme professeur à 1'Académie des Beaux-Arts de Dresde. En 1933, quelques temps après 1'arrivée au pouvoir du nouveau régime, il est licencié. Dix représentait pour le régime nazi le prototype de l'art au service de la décadence, et des œuvres tels que Tranchées, Invalides de guerre, eurent l'honneur de figurer dans l'exposition itinérante ”d'art dégenéré” organisée par la Propagande du Reich en 1937, plaçant Dix dans une situation délicate. Il est clair que Dix n'a jamais temoigné un grand intérêt pour la chose politique, refusant toute adhésion partisane avec force sarcasmes. Mais, rétrospectivement, ces jugements apparaissent d'autant plus absurdes que la manière de Dix depuis la fin des années vingt avait déjà considérablement évoluée et témoignait d'un très grand intérêt pour la technique des primitifs allemands que le régime vantait d'autre part. Situation ô combien absurde, mais qui devait grever toute la production des années trente.

 

En 1936, 1'insécurité présente en Saxe l'incite à s'installer avec sa famille sur les bords du lac de Constance dans la bourgade de Hemmenofen. A l'exil intérieur dans lequel il vit, correspond une production toute entière consacrée aux paysages et aux thèmes religieux. Tous ces tableaux montrent une maîtrise peu commune, l'utilisation des couches de glacis superposés, fidèle aux primitifs allemands du seizième, permet une extraordinaire précision et la description du moindre détail. Si Dix a pu dire qu'il avait été condamné au paysage qui, certes, ne correspondait pas au premier mouvement de son âme, on reste néanmoins émerveillé par certaines de ses compositions. Randegg sous la neige avec vol de corbeaux  de 1935: la nuit de 1'hiver enclot le village recouvert d'une épaisse couche de neige, les arbres qui se dressent dénudés évoquent les tableaux de Caspar David Friedrich, unité que seule perçoit le regard du peintre. Loin de se contenter d'un plat réalisme, cet ensemble n'a jamais rendu aussi finement la présence du peintre, léger recul et participation tout à la fois à l'univers qui l'entoure.

 

Devant les gribouilleurs et autres tâcherons copieurs de la manière ancienne aux ordres des nouveaux impératifs, et dans une période où l'humour est si absent des œuvres de Dix, celui-ci semble dire magistral: “Tas de boeufs, vous voulez du primitif, en voilà!”. Art de plus en plus contraint à mesure que passaient les années, mais au moyen duquel Dix exposait une facette majeure de sa personnalité. Dès 1944, il éprouvait le besoin d'en finir avec cette technique minutieuse, exigeante qui bridait son besoin de créativité. La dynamique formelle reprend vivement le dessus dans ses Arbres en Automne de 1945 où les couleurs explosent à nouveau triomphantes. Les peintures de la fin de sa vie renouent avec la grossièreté des traits des œuvres des années vingt.

 

Peu reconnu par la critique alors que le combat pour l'art abstrait battait son plein, Dix est resté, dans ces années, en marge des nouveaux courants artistiques auxquels il n'éprouvait aucunement le besoin d'adhérer. Les thèmes religieux, ou plutôt une imagerie de la bible qu'il essaie étrangement de concilier avec la philosophie de Nietzsche, tiennent dans cette période un rôle fondamental. Sa peinture semble parvenir à une économie de moyens qui rend très émouvantes certaines de ses toiles  —Enfant assis, Enfant de réfugiés, 1952—, la prédisposition de Dix pour les couleurs n'a jamais été aussi présente, l'Autoportrait en prisonnier de guerre  de 1947 est organisé autour des taches de couleur, plaquées sur un personnage muet, vieilli, dont les traits se sont encore creusés. Après plusieurs années de vaches maigres, les honneurs des deux Allemagnes se succédèrent  —il resta toujours attaché à Dresde où il se déplaçait régulièrement . Atteint d'une première attaque en 1967 qui le laissa amoindri, il devait néanmoins poursuivre son travail jusqu'à sa mort deux ans plus tard. Un des ces derniers autoportraits, l'Artiste en tête de mort, montre le crâne du peintre ricanant ceint de la couronne de laurier, image troublante qui rejette au loin les nullissimes querelles entre art figuratif et art abstrait.

 

Guillaume HIEMET.

 

Les citations sont tirées de : Eva KARCHNER, Otto Dix 1891-1969, Sa vie, son œuvre, Benedikt Taschen, 1989.